Smart working negli uffici pubblici. Come al solito a frenare sono i sindacati. Chiesti limiti e contratti specifici per ciascun ente. La ministra Dadone: la rivoluzione non si ferma

Non disperdere l’esperienza che il lockdown ci ha imposto sul telelavoro nella pubblica amministrazione. Ma normare e organizzare le attività in modo più produttivo. È l’obiettivo del Governo che punta a raggiungere nel tempo una percentuale di attività realizzate da remoto tra il 50% e il 70% di quelle oggi offerte negli uffici pubblici, mettendo in smart working un gran numero di persone. Uno sforzo che richiede a monte regole precise, studiate appositamente per il lavoro a distanza, e chiarimenti specifici amministrazione per amministrazione, definendo quali sono le attività che si possono fare da remoto e quelle che necessitano la presenza in ufficio.

Novità che tanto per cambiare trovano i sindacati ostili al cambiamento, in parte per una consolidata incapacità di stare al passo con i tempi e in parte – qui a ragione – perché moltissime attività effettivamente non possono essere fatte da casa, a partire da quelle che riguardano la scuola, dato che la didattica a settembre è ripresa in presenza (salvo rotazioni al liceo con la didattica a distanza e i casi di alunni o professori positivi) e la sanità, ma anche tutto il comparto della sicurezza.

NON TUTTO SI FA DA CASA. “Il Governo – ha chiesto il segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri – contrattualizzi lo smart working e favorisca il rientro dei lavoratori della Pubblica amministrazione al lavoro garantendo la sicurezza negli uffici”. E ha aggiunto: su questo tema l’Esecutivo “è superficiale” perchè non affronta il vero tema che è quello di contrattualizzare lo smart working amministrazione per amministrazione. Un’accusa che dimentica lo sforzo fatto da sempre sia dall’attuale che dal precedente Governo di Giuseppe Conte proprio per la digitalizzazione e l’implementazione delle attività lavorative da remoto, peraltro autentico pallino della componente Cinque Stelle nelle due maggioranze gialloverde e giallorossa.

“Noi siamo perché i lavoratori rientrino tutti al lavoro, in piena sicurezza. I criteri della sicurezza devono essere quelli previsti per il lavoro privato”. Su 3,2 milioni di lavoratori pubblici ci sono 1,2 milioni nell’istruzione e nella ricerca, mentre 648.000 sono impegnati nella sanità e oltre 500.000 sono le forze armate e gli altri dipendenti con un contratto di diritto pubblico, settori nei quali è difficile immaginare lo smart working se non in minima parte.

In pratica possono essere messi in smart working i lavoratori delle funzioni centrali come quelli dei ministeri (circa 234.000) e una parte di quelli degli enti locali (circa 512.000 nel complesso) oltre a una parte residuale degli altri comparti. “Non si può fare una stima precisa – ha spiegato il segretario nazionale della Fp-Cgil Florindo Oliviero – ma credo che non oltre 400-500.000 possano essere messi in smart”. Per il segretario confederale Cisl, Ignazio Ganga: “Bisogna passare dallo smart working dell’emergenza ad una disciplina del lavoro agile che rientri a pieno titolo tra le materie di contrattazione”.

DALLA BCE UNA STIMA SHOCK. Su questo terreno il Governo non intende però farsi fermare, anche se resterà la disponibilità all’ascolto delle parti sindacali. “Il mondo sta cambiando rapidamente – ha detto la ministra della Funzione Pubblica, Fabiana Dadone (nella foto) commentando le dichiarazioni della presidente della Bce, Christine Lagarde sul fatto che solo il 10% dei lavoratori in smart working ha bisogno di tornare in ufficio – e noi dobbiamo farci interpreti e saper governare la rivoluzione, non subirla. Ci riusciremo se agiremo senza paraocchi, valutando opportunità e problemi con attenzione, sfruttando le prime e risolvendo i secondi”.