Spariti in Svizzera 10 milioni. In manette il prefetto Francesco La Motta

di Martino Villosio

n’indicibile beffa per i cittadini”. La sintesi dell’indagine della procura di Roma che ieri ha portato all’arresto dell’ex vice direttore dei servizi segreti interni Franco La Motta arriva in fondo all’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip. Venticinque pagine che, nell’epoca dell’austerità “necessaria” e dei rigidi blocchi stipendiali inesorabilmente inflitti a poliziotti e dipendenti statali, raccontano la curiosa gestione di 10 milioni di soldi pubblici da parte del Ministero dell’Interno. Partiti dal Fec, un ente il cui fondo avrebbe dovuto servire per la tutela degli Edifici di Culto, volati verso una banca privata svizzera, infine fatti “sparire” sul conto di una società elvetica nella quale confluivano anche soldi provenienti dalla criminalità organizzata.

La spoliazione
La spoliazione del fondo avrebbe avuto quattro protagonisti principali. In primis l’ex prefetto La Motta: gentiluomo di Sua Santità, ancora oggi consulente dell’Aisi, l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna, nonché direttore del Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno dal 2003 al 2006. Dopo aver suggerito al consiglio di amministrazione del Fec di aprire un conto presso la Banca Svizzera Hottinger “senza alcuna necessità”, come scrive il gip, La Motta ha di fatto continuato a interessarsi degli investimenti dell’ente anche una volta lasciato l’incarico al Fec. Addirittura, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, dando direttive ai soggetti arrivati dopo di lui.  I soldi del Fondo finiti in Svizzera, secondo quanto ricostruito dai Ros e dai carabinieri di Napoli, sono stati gestiti negli anni da Rocco Zullino, “soggetto in stabili rapporti con la criminalità organizzata campana”, già in carcere perché arrestato nell’ambito dell’inchiesta partenopea da cui è scaturito il filone romano. E’ stato proprio il broker, nell’interrogatorio del 13 maggio scorso, a chiamare in causa La Motta e un suo parente, Eduardo Tartaglia, anch’egli già detenuto e raggiunto in carcere dall’ordinanza di custodia cautelare di ieri. Secondo un’informativa dei carabinieri, Tartaglia sarebbe riuscito ad insinuarsi nel consiglio di amministrazione del Fec “con il precipuo scopo di accedere agli stanziamenti nella disponibilità del Fondo e veicolarli verso la Svizzera per la collocazione sui mercati esteri”. Il “quarto uomo”, arrestato ieri – come gli altri – accusato di peculato e falsità ideologica, è il banchiere in pensione Klaus Beherend, che avrebbe redatto i piani d’investimento dei soldi provenienti dal Fec e avrebbe aiutato Tartaglia a falsificare i prospetti con la rendicontazione degli investimenti operati a favore dell’ente.

Gli interventi sul Fec
Dopo ben sei anni e decine di milioni affidati a Zullino, all’inizio dello scorso anno il consiglio di amministrazione del Fec ha iniziato a vagliare l’effettiva bontà dell’investimento sponsorizzato dalla Banca Hottinger. Le intercettazioni telefoniche sembrano dimostrare in modo eloquente l’interesse personale di La Motta (fuori dall’ente ormai da più di un lustro) per le sorti del conto svizzero. Il gip parla di un “articolato tentativo di ingraziarsi i membri del Fec al fine di dissuaderli dall’iniziativa di chiudere il conto presso la Hottinger”. Nelle telefonate l’ex prefetto, per calmare la preoccupazione di Tartaglia, accenna anche al possibile intervento di un monsignore di sua conoscenza, e dice di aver parlato con “uno che queste cose le sa, e che deve pigliare in mano la situazione”, alludendo a un importante dirigente del Ministero. Qualche mese prima, nelle conversazioni tra Zullino e Tartaglia, si parla dei regali da comprare e recapitare ai consiglieri del Fec.

La legge ignorata
Per il gip appare del tutto probabile che vi siano state collusioni con altri pubblici ufficiali organici al Fondo, “essendo del tutto inverosimile che nessuno si sia accorto di nulla per svariati anni”. Come chiarisce anche la relazione della commissione ministeriale istituita nell’aprile scorso, inoltre, il Fec non può assolutamente intrattenere conti correnti bancari in base alla legge. I capitali acquisiti dal Fondo devono essere versati su un conto corrente presso la tesoreria centrale e reinvestiti solo previa emissione di un mandato di pagamento. Norme rigide, che proprio nel cuore del Ministero responsabile della sicurezza pubblica sono state tranquillamente, e per anni, bypassate.