Speculatori e guerrafondai. Così restiamo prigionieri sul gas

L’aumento del prezzo del gas? Brancaccio: “La causa principale può essere sintetizzata così: gli speculatori scommettono sui guerrafondai”

Speculatori e guerrafondai. Così restiamo prigionieri sul gas

L’aumento del prezzo del gas? “La causa principale può essere sintetizzata così: gli speculatori stanno scommettendo sui guerrafondai”. È chiaro sul punto Emiliano Brancaccio, docente di politica economica presso l’Università del Sannio e protagonista di dibattiti con alcuni tra i massimi esponenti della teoria e della politica economica internazionale, tra cui Mario Monti, Olivier Blanchard, Daron Acemoglu.

“I professionisti della finanza – continua il professore ed intellettuale ora in libreria con “Democrazia sotto assedio (Piemme) – giocano sulla previsione che i venti di guerra non si placheranno, e che il conflitto con la Russia sia destinato a durare. L’idea prevalente è che i paesi europei della NATO sono pronti a sostenere i costi della transizione necessaria per fare a meno dell’energia russa in tempi relativamente brevi”.

Cosa comporta tutto questo?
Questa politica europea, così avventurista e forzata, suscita forti aspettative di aumento dei prezzi dell’energia e quindi crea enormi occasioni di guadagno speculativo: i professionisti sui mercati si fanno prestare denaro, comprano gas, attendono che il prezzo salga, lo rivendono, restituiscono i prestiti e si tengono i guadagni netti. Il risultato è che il prezzo esplode, a livelli anche superiori rispetto a quelli causati dalla sola guerra.

Il governo Draghi spinge per un tetto europeo al prezzo del gas. Per quale motivo non si riesce ad attuare?
Perché significa agitare nuovamente lo spettro del “prezzo politico”, una forma di interventismo pubblico che va contro i dogmi liberisti ai quali sono state educate le classi dirigenti d’Europa. Lo stesso Draghi è stato per anni un ideologo delle magnifiche sorti progressive delle libere forze del mercato, speculazione inclusa. Ed è stato anche tra i sostenitori del cosiddetto “mercato libero” dell’energia, un catino del tutto inefficiente che soprattutto in Europa è completamente in balia dei giochi speculativi. Il fatto che ora proprio Draghi proponga un tetto “politico” ai prezzi, sia pure in forma blanda, è una retromarcia interessante. Ma proprio per questo è difficile considerarla del tutto credibile.

Tanti insistono sulla tassazione degli extra-profitti. Può essere questa una strada da intraprendere?
Sì, se solo si riuscisse a capire chi ha fatto extra-profitti e dove li ha messi. Al giorno d’oggi gli speculatori sono protetti da un sistema di norme opaco, costruito per impedire qualsiasi ingerenza della mano pubblica sugli affari privati. Siamo arrivati al paradosso che lo Stato deve supplicare per ottenere dati sui guadagni di capitale delle aziende di cui è esso stesso azionista.

Intanto l’inflazione ha ormai raggiunto livelli eccezionali. Le banche centrali rispondono con un aumento dei tassi d’interesse. E’ la strada giusta?
L’idea di controllare l’inflazione a colpi di aumenti dei tassi d’interesse è una fantasia horror dell’ortodossia economica, che non trova basi scientifiche adeguate e che fa enormi danni. La verità è che i banchieri centrali aumentano i tassi d’interesse per brutali ragioni di distribuzione del reddito tra le classi sociali: vogliono compensare i creditori delle perdite causate dall’inflazione.

Cosa bisognerebbe fare, allora?
Più che ai creditori bisognerebbe badare ai lavoratori, facendo crescere i salari in modo da compensare il boom dei prezzi. Ma questa, che era una prassi ovvia qualche decennio fa, oggi è considerata un’eresia e incontra enormi resistenze. Eppure, se i salari rimangono fermi al palo, le conseguenze saranno tremende. Stando alle stime ufficiali dell’inflazione, possiamo prevedere perdite cumulate di potere d’acquisto di salari e stipendi fino al 20 percento.

Siamo alla vigilia di nuove elezioni. E il titolo del suo ultimo libro, “Democrazia sotto assedio” (Piemme 2022), è eloquente. Il problema è riferito soprattutto alla politica economica, che resta sempre la stessa e non obbedisce alle regole democratiche…
Sì, i dati indicano che da decenni le diverse forze politiche si avvicendano alla guida dei vari paesi ma la politica economica resta sostanzialmente la stessa, ostile alle istanze del lavoro subordinato: dipendenti, precari, finti autonomi, eccetera, che complessivamente subiscono un deterioramento delle prospettive di vita. Nemmeno le cosiddette forze del “sovranismo populista” fanno eccezione: una volta al governo, tendono ad allinearsi all’ordine prevalente della politica economica. Nel mio libro riporto esempi, anche riguardo al caso italiano.

Professore, il suo pensiero ruota intorno a un aggiornamento del concetto di “rivoluzione”, come alternativa al rischio di una “catastrofe” di sistema. In che maniera dovrebbe attuarsi una tale “rivoluzione”?
Di “rivoluzione” sono tornati a parlare in tanti, persino ai vertici del FMI. Io parlo di “rivoluzione” come rivolgimento “razionale” di ciò che non è tale. Pensiamo a un vecchio insegnamento della storia del capitalismo: la miscela di guerra militare e libera speculazione finanziaria può fare la fortuna di pochi mercanti e può invece risultare devastante per le classi subalterne. Scongiurare questa combinazione perversa significa capire, tra l’altro, che nel mezzo del caos bellico il problema non è più semplicemente quello di imporre “tetti” ai prezzi o di “tassare” gli extra-profitti. Anche se attuate seriamente, queste misure suonano come la proverbiale chiusura della stalla quando i buoi sono già scappati. Piuttosto, tanto più nella bolgia della guerra, diventa necessario agire in chiave più generale.

Vale a dire?
Bisognerebbe abbandonare la folle politica liberista degli anni passati, che ha collocato i mercati finanziari al centro della determinazione di alcuni prezzi chiave, tra cui quelli dell’energia. Per dare nuovo ordine al sistema e sottrarlo alle scorribande della speculazione, questi prezzi fondamentali dovrebbero tornare sotto pianificazione pubblica. Questo sarebbe un primo, vero fatto “rivoluzionario”. Inteso, per l’appunto, come rivolgimento razionale di ciò che razionale oggi assolutamente non è.