A un anno esatto dal voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che chiedeva a Israele di ritirarsi dai Territori Occupati Palestinesi entro il settembre 2025, Oxfam e decine di organizzazioni italiane e internazionali lanciano la campagna “Stop al commercio con gli insediamenti illegali”. Al centro c’è un rapporto che documenta l’impatto devastante dell’occupazione israeliana sulla vita e sull’economia palestinese, aggravato dai flussi commerciali e finanziari che continuano a legittimare l’espansione delle colonie.
Secondo i dati raccolti, oltre il 42% della Cisgiordania è occupato da insediamenti israeliani. Negli ultimi cinque anni le nuove costruzioni sono cresciute del 180%, con 30.682 unità abitative autorizzate solo nel 2023. Oggi più di 700.000 coloni vivono in centinaia di insediamenti collegati da infrastrutture dedicate, mentre ai palestinesi restano restrizioni crescenti: 900 checkpoint, aree interdette e tempi di spostamento che costano ai lavoratori 764.600 dollari al giorno in salari persi.
Povertà, acqua e ulivi
Il quadro economico fotografato dal rapporto è netto. La povertà in Cisgiordania è passata dal 12% al 28% in due anni, con un tasso di disoccupazione che ha raggiunto il 35% a inizio 2025, secondo il Palestine Economic Policy Research Institute. L’annessione di fatto porta con sé espropri, demolizioni, sfollamenti forzati. Le donne palestinesi pagano il prezzo più alto: circa 6.500 lavorano negli insediamenti israeliani in condizioni precarie, senza contratti né tutele, con salari che raramente superano i 20 dollari al giorno.
Dal 1967 le forze israeliane hanno sradicato oltre 800.000 ulivi, privando le comunità di una coltura che rappresenta il 14% dell’economia palestinese. Solo nel 2023 sono stati distrutti o vandalizzati più di 10.000 alberi. Sul fronte idrico la disparità è abissale: i coloni consumano in media 247 litri d’acqua al giorno, contro gli 82 dei palestinesi. Per chi non è allacciato alla rete idrica, la disponibilità crolla a 26 litri, ben al di sotto dei 100 litri raccomandati dall’Oms. La Banca Mondiale stima che la carenza d’acqua per l’irrigazione comporti perdite pari al 10% del Pil palestinese e oltre 110.000 posti di lavoro.
Ue, Italia e il commercio che alimenta l’occupazione
L’Unione europea resta il principale partner commerciale di Israele, con il 32% del totale degli scambi. Nel 2024 l’import-export ha raggiunto i 42,6 miliardi di euro; l’Italia da sola ha scambiato merci e servizi per oltre 4 miliardi, di cui 1 miliardo di importazioni. Nonostante la sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue del 2019, che vieta l’etichetta “Made in Israel” sui prodotti provenienti dalle colonie, sugli scaffali europei circolano ancora merci degli insediamenti con marchi fuorvianti.
Il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia del luglio 2024 ha stabilito che gli Stati hanno l’obbligo giuridico di «astenersi dall’intrattenere relazioni economiche o commerciali» che consolidino la presenza illegale di Israele nei Territori Occupati. Ma le aziende internazionali continuano a operare negli insediamenti.
Le organizzazioni promotrici chiedono quindi a Italia e Ue di andare oltre le etichette e adottare leggi che vietino esplicitamente commercio, investimenti e servizi legati agli insediamenti, trasferendo l’onere della prova sull’origine dei prodotti agli esportatori israeliani. In assenza di un bando, denunciano, governi e imprese europee continueranno a essere parte attiva nel mantenimento di un sistema illegale che priva i palestinesi di terra, acqua, reddito e futuro.