Il processo per la strage di Cutro è entrato nella sua fase decisiva, ma lo fa già monco. Il naufragio del caicco Summer Love, avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023 davanti a Steccato di Cutro, ha causato la morte di 94 persone, tra cui 35 minori. La vicenda fu subito definita da associazioni e Ong una “strage di Stato”. Oggi, il dibattimento giudiziario che dovrebbe ricostruire responsabilità e omissioni si apre con ammissioni e silenzi che pesano.
Sul banco degli imputati siedono sei ufficiali: quattro della Guardia di Finanza e due della Guardia Costiera. La Procura di Crotone contesta loro i reati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo per aver ritardato l’avvio dei soccorsi e sottovalutato la gravità della situazione nonostante i segnali d’allarme arrivati ore prima da Frontex. L’indagine ha rivelato carenze nel coordinamento tra le due forze, omissioni comunicative e ritardi nelle valutazioni operative, aggravati da condizioni meteo avverse e da una lettura formalistica delle regole d’ingaggio.
Chi può stare in aula: il filtro del GUP
Il Giudice per l’Udienza Preliminare ha accolto 88 parti civili. Tra queste sono state ammesse le principali Ong di soccorso: Emergency, Louise Michel, Mediterranea Saving Humans, Sea-Watch, SOS Humanity e SOS Mediterranée Italia. Secondo il giudice, queste organizzazioni “si occupano di soccorsi in mare, perseguendo quale primario obiettivo la tutela della vita”. Le Ong hanno dichiarato: “I ritardi non sono incidenti, ma negligenze più o meno calcolate. La catena di comando va ricostruita integralmente”.
Ma la selezione delle parti civili lascia sul terreno molte esclusioni. Bocciate le richieste di associazioni storicamente impegnate nella difesa dei diritti dei migranti: ASGI, ARCI, Melting Pot, Mem.Med, Sabir, Giuristi Democratici, Progetto Diritti, Senza Confine e altre ancora. Secondo il Gup, queste realtà non sarebbero “direttamente coinvolte nella tutela della vita in mare”. Una decisione che ha sollevato critiche pesanti. L’avvocato Santino Piccoli (Acad e Melting Pot) non ha nascosto tutta la sua amarezza: “Sono stati lasciati soli i superstiti e i parenti delle vittime, sostenuti solo dalle Ong”. Dura anche Mem.Med: “Emblematica sordità verso il dolore e la verità. Perfino i legami familiari sono stati contestati dagli avvocati degli imputati, come se si potesse cancellare il diritto alla giustizia”.
Il nodo delle responsabilità politiche
La fotografia giudiziaria si complica ulteriormente se si osservano le responsabilità civili. Sono stati citati il ministero dell’Economia e delle Finanze (per i finanzieri), il ministero delle Infrastrutture (per la Guardia Costiera) e il Fondo di garanzia delle vittime della strada. Respinta invece ogni richiesta di chiamata in causa per il Viminale e la Presidenza del Consiglio, nonostante in un parallelo procedimento contro gli scafisti queste stesse istituzioni si siano costituite parte civile, invocando “l’estrema gravità dei fatti”.
Su questo punto si addensa il rischio che il processo limiti il perimetro delle responsabilità ai livelli operativi intermedi, evitando di risalire la filiera decisionale politica e amministrativa che ha influenzato l’intervento dei soccorsi. Come documentato, l’operazione inizialmente classificata come contrasto all’immigrazione clandestina e non come emergenza Sar pone un interrogativo su quanto le scelte operative siano state dettate da logiche di controllo dei confini anziché di tutela della vita.
I familiari esclusi anche fisicamente
Il quadro si completa con il paradosso kafkiano imposto ai familiari delle vittime residenti all’estero. Diversi parenti, provenienti da Iran, Turchia e Pakistan, si sono visti negare o ostacolare il visto per partecipare al processo. Un rimpallo di competenze tra Questura di Crotone, Gup e Ministero degli Esteri, che ha richiesto interventi d’urgenza davanti al Tribunale civile per garantire il diritto alla partecipazione processuale.
Il passo indietro della Calabria
Infine, pesa anche il dietrofront della Regione Calabria, che dopo essersi costituita parte civile, ha ritirato la propria adesione “per rispetto verso chi indossa una divisa”, piegandosi di fatto alle pressioni delle gerarchie militari e ai diktat politici del governo centrale.
Il 9 giugno si deciderà sul rinvio a giudizio degli imputati. Ma il rischio concreto è che, ancora una volta, resti in piedi soltanto una giustizia parziale: quella che evita di interrogarsi sulle responsabilità sistemiche e politiche che hanno trasformato il Mediterraneo in un cimitero.