Sull’orlo del baratro. Il J’accuse degli industriali

di Monica Setta

“Il Nord è sull’orlo di un baratro economico che trascinerebbe tutto il Paese indietro di mezzo secolo escludendolo dal contesto europeo che conta. È questo davvero quello che vogliamo?”. Quando Giorgio Squinzi si rivolge alla platea dell’assemblea annuale della Confindustria formulando la fatidica domanda, il suo discorso è già verso la fine, a pagina 23 su un totale di 28 cartelle dattiloscritte. Prima, il leader degli imprenditori, ha ringraziato Giorgio Napolitano per la saggezza dimostrata durante la crisi politica successiva al voto del febbraio scorso, ha teso la mano al premier Enrico Letta, ricordandogli che “senza interventi decisi e concreti” la crescita italiana non supererà per molto tempo lo 0,5 per cento annuo, ossia un tasso totalmente insufficiente a creare lavoro. Pacato, dunque, collaborativo, ma il messaggio cruciale arriva dritto alla prima fila del parterre composta da mezzo governo, Letta in testa, e past president dell’associazione. La voce di Squinzi diventa improvvisamente fragile mentre suona la campana a morto di un paese, l’Italia, dove oltre 70 mila imprese manifatturiere negli ultimi 5 anni hanno cessato l’attività. Marco Tronchetti Proverà e Francesco Gaetano Caltagirone, nella seconda fila, si guardano per un istante e annuiscono quasi all’unisono. Anche Roberto Colaninno, Fedele Confalonieri e Franco Bernabè concordano. Squinzi, stavolta, ha colpito nel segno: fra il 2007 e il 2013 il Pil italiano è sceso di oltre l’8 per cento tornando ai livelli del 2000. Nessun altro paese dell’euro zona, aggiunge il numero uno degli imprenditori privati, sta vivendo una simile caduta con l’eccezione della Grecia. La produzione è crollata del 25 per cento, in alcuni settori addirittura del 40. L’allarme coinvolge tutti perchè il presidente di Confindustria pronuncia una parola che diventa collante: il lavoro. “La tenuta sociale è messa a dura prova”, sottolinea, “l’occupazione è calata di 1,4 milioni e i disoccupati sfiorano i 3. Dal 1997 al 2007 il tasso di crescita dell’economia italiana è stato infatti inferiore mediamente di circa 1 punto annuo rispetto ai paesi dell’area euro”. E non è solo colpa della crisi, affonda Squinzi, ma anche del fisco punitivo (il cuneo fiscale nel 2012 è stato oltre il 53 per cento del costo del lavoro, tra i più elevati nell’Ocse), di un mercato del lavoro troppo “vischioso ed inefficiente”, del taglio dei prestiti erogati alle aziende (-50 miliardi negli ultimi 18 mesi), di una giustizia che non funziona e di una pubblica amministrazione che “pesa” per il 60 per cento del Pil nazionale. A rincarare la dose, poi, ci pensa il fattore instabilità politica e istituzionale dovuto ad una classe dirigente dichiaratamente non all’altezza del compito. Ma Squinzi non si limita a sferrare l’attacco, a disegnare lo scenario del possibile “default”, si incarica anche di tendere la mano al governo in modo convinto e responsabile. “Se questo sarà il governo della crescita”, anticipa, “noi lo sosterremo con tutte le nostre forze. Deve essere il governo del lavoro perchè la mancanza di occupazione è la madre di ogni madre sociale”.
Enrico Letta, piazzato proprio davanti al palco presidenziale, sorride. “Non so se ce la faremo, ma certamente ce la metteremo tutta”, ammette. Nel suo intervento iniziale, il premier ha spiegato che la politica ha capito troppo tardi la lezione: quando si chiedono sacrifici ai cittadini bisogna essere in grado di dare il “buon esempio”. Per essere credibili, bisogna essere austeri e avere un’etica, una morale. E qui va in scena la partnership fra Letta e Squinzi. Il primo che chiede una modernizzazione seria del Paese, riforme strutturali per l’economia a cominciare dal taglio di “almeno” 11 punti per gli oneri sociali che gravano sulle imprese. Il secondo, che pur guidando un governo “debole” concorda e sposta al 2020 l’orizzonte: per quella data il Pil dovrà salire del 20 per cento e l’Italia dovrà tornare a contare – in termini di competitività e produttività – in Europa. “ Qualcuno dice che noi imprenditori non facciamo altro che lamentarci”, continua il presidente della Confindustria, “in realtà se consideriamo le condizioni in cui siamo costretti a lavorare rimanendo ancora il secondo paese manifatturiero d’Europa e l’ottavo al mondo, forse lamentarci non è la nostra principale attività”. L’importante è che si faccia presto perchè il tempo manca e bruciarlo vanamente nelle parole spese a vuoto sarebbe un peccato essenziale, fatale.
A fine relazione, l’intesa con il governo c’è tutta. Letta parla di “squadra”, i ministri commentano che solo “insieme alle parti sociali” si può salvare il sistema. E la Confindustria, d’amblè, diventa un modello di operatività per tutta l’economia. “Noi non siamo una casta, potere forte o debole che sia, salotto più o meno buono”, ci tiene a ribadire Squinzi, “noi siamo la casa del capitalismo reale, quello produttivo e dell’innovazione”. Poco prima delle 13 la sobria assemblea è conclusa. C’è chi corre all’Aspen, chi se ne torna in fabbrica. Il discorso del presidente ha convinto. Lo dice il plenipotenziario dell’Eni Paolo Scaroni, lo fa capire anche l’amministratore delegato Enel Fulvio Conti mentre la stessa ex presidente Emma Marcegaglia, parlando con Laura Boldrini, presidente della Camera, ha parole positive per il suo successore. Prima di far calare il sipario, il ministro dello sviluppo Economico Flavio Zanonato conferma lo sgravio al 55 per cento per l’efficienza energetica 2013 e avanza verso l’abbassamento della soglia per la defiscalizzazione delle grandi opere da 500 a 50 milioni.
Ora davvero la joint venture fra governo e Confindustria è formalizzata. Vedremo nei prossimi mesi se e quanto durerà alla verifica con le riforme economiche e istituzionali.