Il partito Rai scende in piazza, e ai manager non dispiace

di Sergio Patti

Racconta i sacrifici degli altri. Ma a farne di propri non ci pensa proprio. È la Rai, azienda che per prima rompe l’idillio del Paese con Renzi, scendendo in piazza per protestare contro i tagli della spending review. Un giorno di sciopero, l’11 giugno, indetto dalle organizzazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil, Ugl, Snater, Conf Sal e l’immancabile Usigrai. I 150 milioni chiesti dal governo come contributo all’ultima manovra sono inaccettabili per una società che ha goduto per decenni di privilegi assoluti. Tanto che gli stessi sindacati ieri parlavano di “evidenti profili di incostituzionalità” per i nuovi tagli. Ditelo ai pensionati o agli esodati, che per fame la Costituzione se la sono mangiata da un pezzo.

Vai avanti tu
Quello in programma, tra l’altro, sarà uno sciopero surreale. I primi a non voler pagare dazio sono infatti i dirigenti dell’azienda, tutti ovviamente molto attenti a non mettersi in contrasto con il governo e un premier dal 40% dei consensi nel Paese. Andate avanti voi, è stato perciò l’ordine di scuderia, favorito da un sindacato sempre più in rotta di collisione con un governo riformista (e dunque naturale avversario dei privilegi di cui anche le confederazioni dei lavoratori godono da decenni). “Un taglio drastico che non colpisce gli sprechi ma i posti di lavoro – sostengono i sindacati – creando le condizioni per lo smantellamento delle sedi regionali e ancor peggio per la svendita di RaiWay alla vigilia del 2016 (data in cui dovrà essere rinnovata la concessione per il servizio pubblico). Silenzio di tomba invece su cosa costa l’azienda, compreso il gran numero di giornalisti “fantasmi” nascosti un po’ dapertutto, per non parlare dei tantissimi instancabili dipendenti. Sì, instancabili nello stare al bar di Saxa Rubra o imboscati nei mille uffici dell’azienda. Così tornano le parole d’ordine del no all’inquietante ritorno a un passato fatto di conflitti di interessi e invasione di campo dei partiti e dei governi. Come se la politica in Rai non comandi oggi come ieri. Anzi, oggi persino di più. Raiway e le sedi regionali però non si possono toccare. Vendere o ridurne l’organico significa – continuano – far morire la Rai e compromettere seriamente il rinnovo della concessione per il servizio pubblico. Argomento curioso, visto che la concessione la dà il governo e semmai mettersi proprio contro il governo può mettere in pericolo il rinnovo di una concessione che è nell’ordine delle cose. A meno che qualcuno non pensi che il concessionario del servizio pubblico possa mai essere Mediaset o la Sky dello squalo Murdoch.

L’avviso
L’aria che tira sui tagli in Rai si era però già annusata a Ballarò lo scorso 13 maggio, in un serrato faccia a faccia fra il premier Matteo Renzi e il conduttore del programma Giovanni Floris. “Anche la Rai deve partecipare dei sacrifici, tocca anche a voi”, aveva detto il premier, distinguendo tra “tagli agli sprechi e ai cda” e licenziamento di lavoratori che, anzi, “non ci saranno”. Troppo poco per chi aveva già deciso di far partire la contestazione, avendo dato prima delle parole del premier già appuntamento all’uscita della trasmissione di Rai Tre per contestare il Presidente del consiglio, facendogli notare che aveva detto un sacco di inesattezze e difendendo la propria azienda. Renzi se ne era andato via su tutte le furie gridando di non votare per lui e ricevendo in risposta un coro di “stai sereno Matteo”. Finiti i tempi in cui un posto in Rai non si negava a nessuno, oggi resta da pagare il conto. La politica ha fatto il guaio, la politica paghi, è la richiesta. Il fatto è che quando paga lo fa di tasca nostra.