Tasse, la presa in giro degli acconti al 100%

di Massimiliano Lenzi

Oggi vi raccontiamo una favola. Un uomo entra in un negozio di abbigliamento, si prova un vestito. Gli sta bene indosso e decide di comprarlo. Il vestito costa 600 euro e deve essere ritoccato, in lunghezza, soltanto l’orlo ai pantaloni. L’uomo dice al proprietario: “Se è pronto domani per adesso le lascerei un acconto”. “Va bene, quanto mi vuol lasciare?”. “Beh, diciamo 600 euro”. “Ma come, allora lo paga tutto? Bene”. “No, le lascio un acconto le ho detto. E non mi faccia arrabbiare”. Ora dalla fiaba passiamo alla realtà, cambiando solo l’argomento: non più un vestito da pagare ma le tasse. Premessa per gli increduli, quelli convinti che nell’assurdo nessuno saprebbe far meglio del teatro di Eugène Ionesco. Si convincano del contrario: in Italia ce l’abbiamo fatta. Come? Ci siamo inventati una definizione straordinaria, ovviamente in campo fiscale (la nostra specialità prima ancora del calcio), dove siamo maestri nel farci tartassare da Governi incapaci di tagliare la spesa pubblica da decenni. La definizione è: acconto Irpef e Irap del 100%, acconto Ires del 101%. Domanda da quinta elementare: se è del 100% (o addirittura del 101%) scusate, ma che acconto è? Qui comincia l’avventura del contribuente onesto, il signor Brancaleone. Colpa del caldo? Macché.

La solita storia
Luglio da sempre è l’inferno dei contribuenti italiani per via delle scadenze, altro che afa. C’entrano le tasse e le loro deadline ma soprattutto c’entra l’incapacità della politica nazionale di uscire dalla propria ossessione fiscale come unica leva per generare risorse allo Stato. E’ da decenni che si parla, genericamente, di una pressione tributaria insostenibile.
Prendiamo un anno a caso, il 1984. A quell’epoca, c’erano ancora il Pci, l’Urss, il Muro di Berlino e la Ddr, Reagan, Nelson Mandela stava chiuso in una prigione, non c’era l’I-Phone ma le tasse quelle sì. A quell’epoca un uomo prudente come il repubblicano Giovanni Spadolini nelle tribune politiche ripeteva: “C’è un limite alla pressione tributaria ormai arrivata a livelli insormontabili”.
Da allora ad oggi, visto che è sempre andata crescendo, si registrano tre fenomeni: la politica sa trovare soldi solo alzando le tasse; gli italiani onesti sono veri tartassati e la lingua genera curiosi neologismi, come gli acconti del 100%. Il fatto è che ad esser rigorosi quell’acconto del 100% su futuri guadagni che ancora non si conoscono e non ci sono, stimati su redditi precedenti e basta – e questo è un assurdo di per sé che diventa doppio in tempi di crisi e recessione economica – sono in realtà un prestito alla Stato.
Un esborso anticipato alle sue casse affamate. La schizofrenia del 2013 italiano e di anni e anni di mancate riforma del fisco, con conseguente calo della pressione tributaria mai arrivato, sta proprio qui: gli italiani fanno allo Stato ciò che nessuna banca (o quasi) fa a loro: cioè un prestito.
Quando si parla di economia ferma, di calo di consumi, non si può non accorgersi di questo cortocircuito che prima ancora che fiscale è logico. Di senso.

Il paradosso
Se lo sforzo di non aumentare l’Iva deve prevedere un aumento dell’acconto Irpef, Irap e Ires, beh spiegate da dove dovrebbe arrivare l’ossigeno all’economia ed ai contribuenti che poi sono in gran parte ceto medio, quello più sofferente per la crisi. Tutto ciò poi – ed è la cornice straordinaria nel panorama italiano – avviene verso quelli che le tasse già le pagano perché gli evasori se ne fregano degli acconti. Siccome ci piacciono i fatti, per capire come il livello di pazienza dei contribuenti onesti sia, in Italia, straordinario ripeschiamo le parole del saggio Spadolini sul tema: “Bisogna individuare i settori di più larga evasione. Il Governo si è impegnato entro il 30 giugno a trovare i mezzi per eliminare la più vasta evasione fiscale”. Il 30 giugno era quello del 1984 mica quello di dopo domani: son passati, insomma, 29 anni e l’oratoria della politica è ancora ferma alla necessità della “lotta all’evasione” e “della riduzione della pressione fiscale”. Ionesco, dove sei? vien da gridare. Tu che hai sventolato l’assurdo sulla condizione umana, avvertendo che le parole bastano a se stesse e basta. In Italia no, le parole vanno pure oltre. Per questo forse, dopo trent’anni spesi a parlare di calo della pressione fiscale ci ritroviamo oggi con un peso tributario più alto, un’evasione che resta emergenza nazionale e con i neologismi del nonsense – come l’acconto del 100% – a supplire le incapacità della politica.

L’amaro in bocca
La beffa finale su tutto questo è che la Corte dei Conti, ogni anno, certifica con la sapienza delle sue relazioni l’ormai esosa pressione fiscale. Rientra nel suo ruolo di controllo ma la realtà pare immutabile. Tutti parlano ma nulla cambia. A volte, tra fiaba e realtà, c’è persino da confondersi, con il rischio di sentirsi dentro ad un film. Un’eterna commedia all’italiana con i ruoli confusi, come nell’Armata Brancaleone del sapido Monicelli: “Addo’ ite?”. “Ahh… così.. sanza meta…”. “Anco noi sanza meta, ma da un’altra parte…”. Sembrerebbe un dialogo tra lo Stato e il contribuente. Che poi, si, i ruoli saranno confusi ma una certezza resta: il tartassato, come chi scrive, paga sempre. Acconti del 100%, mica pinzillacchere. E senza neppure portarsi a casa un vestito nuovo.