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Tra stipendi e reimpiego, il precariato presenta il conto

Quanto ‘costa’ la flessibilità del lavoro, alias precarietà? Uno studio dimostra che il conto risulta salatissimo.

Tra stipendi e reimpiego, il precariato presenta il conto

Quanto ‘costa’ la flessibilità del lavoro, alias precarietà? A leggere lo studio realizzato da Marco Francesconi (professore di Economia all’Università dell’Essex) e Daniela Sonedda (professoressa di Economia Politica all’Università del Piemonte Orientale), focalizzato sugli effetti della riforma Fornero del 2012, il conto risulta salatissimo. Tredici anni fa, difatti, in piena crisi dello spread il governo Monti diede l’ennesimo colpo di scure al sistema dei diritti dei lavoratori, modificando l’art. 18 dello Statuto e limitando il diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo – sostituito in molti casi da un indennizzo economico.

Risultato? “A dodici mesi dalla perdita del lavoro” hanno scritto Francesconi e Sonedda in una sintesi del loro documento pubblicata su lavoce.info “i lavoratori che hanno perso l’impiego dopo la riforma guadagnano in media 222 euro in meno rispetto al lavoro precedente. Per chi ha perso il lavoro prima della riforma, la perdita salariale è di 78 euro”. Un vero e proprio salasso. Non solo. La riforma ha anche portato a “una riduzione di 7 punti percentuali nella probabilità di reimpiego (41 per cento per i lavoratori post-riforma contro 48 per cento per quelli pre-riforma)”. Come se non bastasse, inoltre, “dopo 33 mesi, la perdita salariale è pari al 4 per cento, ovvero 137 euro nel gruppo post-riforma contro 99 euro per il gruppo di controllo.

La probabilità di essere occupati è più bassa di un punto percentuale per i lavoratori del gruppo trattato (37 contro 38 per cento)”. Ad avere la peggio sono state soprattutto alcune categorie di lavoratori. “I più colpiti sono giovani, lavoratori del Mezzogiorno, lavoratori full-time e chi è rimasto nello stesso settore dopo il licenziamento – hanno annotato ancora i due docenti -. La riforma ha finito per amplificare le disuguaglianze esistenti, livellando verso il basso le condizioni dei lavoratori ‘protetti’. Con minori vincoli di reintegro, le imprese hanno potuto licenziare con maggiore facilità”. Tuttavia, “questo ha alimentato l’aspettativa di una produttività media più bassa tra i lavoratori riassunti, con effetti negativi su retribuzioni e condizioni contrattuali. Rendere più facili i licenziamenti non basta a ridurre la dualità del mercato del lavoro. Servono politiche attive, sostegno alla ricollocazione e una rete formale di protezione economica per evitare che i costi della flessibilità ricadano solo sui lavoratori più vulnerabili”. Ricette pienamente condivisibili ma perennemente sacrificate sull’altare del profitto. Così facendo, a rimetterci è il Paese.