Troppi lavori poveri. Colpa del governo ma pure dei sindacati

La crisi italiana del mercato del lavoro non è imputabile in toto alla Meloni e alla sua compagine governativa.

Troppi lavori poveri. Colpa del governo ma pure dei sindacati

In questi giorni di legittima protesta in piazza per la sospensione del Reddito di cittadinanza – che permette al governo di dire: “promessa mantenuta!” – ignorando deliberatamente i danni che ciò produrrà per il Paese, viene da chiedersi come sia stato possibile arrivare a tutto questo.

La crisi italiana del mercato del lavoro non è imputabile in toto alla Meloni e alla sua compagine governativa

Cosa certa è che la crisi italiana del mercato del lavoro non è imputabile in toto alla Meloni e alla sua compagine governativa (l’aggravamento della situazione, sì!) e che c’è la responsabilità di chi troppe volte ha tradito la propria missione cedendo a forme di connivenza (chiamate “necessari compromessi”) affermandosi con una presenza nazionale svuotata però di contenuto sostanziale – ovvero di capacità di incidere significativamente nei processi decisionali – per limitarsi ad attestati di presenza generalmente in piazza (così da poter dire, o lasciar scrivere ai giornali amici, “la gente è con noi”).

Naturlamente, in occasione del Primo Maggio – la festa che per eccellenza li vede mobilitarsi tra canzoni e proclami pro-lavoro – diventano instancabili attivisti delle dichiarazioni a mezzo microfono con una buona inquadratura in camera tra bandiere sventolanti. Mi riferisco al sindacato e alla crisi che attraversa da anni.

“Non ci hanno visto arrivare” – l’ormai celebre frase usata da Elly Schlein dopo essere stata eletta segretaria del Pd – potrebbe essere rivolta dalle nuove categorie di lavoratori al sindacato che, non “vedendole arrivare”, non riesce a rappresentarle. L’assetto novecentesco su cui si è strutturato e tutt’oggi siede il sindacalismo confederale, quello che dava voce a masse di lavoratori facilmente identificabili per natura e richieste, non è in grado di accogliere e rispondere alle esigenze che nascono dalla trasformazione del mondo del lavoro perché non ha saputo evolversi parallelamente a questo.

Dai rider ai lavoratori del settore digitale, solo per citare alcuni esempi della ricca galassia di nuove mansioni, non hanno trovato nel sindacato chi fosse in grado di tutelarli e sono stati risucchiati per questo – senza alcuna intermediazione che potesse difenderne i diritti – nella voragine del lavoro sottopagato. Mentre i working poors (i lavoratori poveri) aumentano, il sindacato riempie le sue file con iscritti che per quasi la metà sono pensionati, persone che dunque sono uscite dal mondo del lavoro. È un cortocircuito non accettabile per un paese che ha l’urgenza di creare le condizioni affinché il lavoro sia inscindibile dalla dignità.

Evidenziare la crisi del sindacato, la cui dettagliata analisi prevede un focus almeno sull’ultimo ventennio, non equivale al voler “buttare il bambino con l’acqua sporca” ma, al contrario, voler rimettere al centro dei giochi un sindacato realmente rappresentativo (l’approvazione della legge sulla rappresentanza dei sindacati sarebbe un primo grande passo normativo a riguardo) e che colga nei problemi del presente una sfida per il proprio rinnovamento. Così da vederci arrivare.