Tre cifre: 3,4 miliardi di dollari è la ricchezza che Donald Trump e la sua famiglia avrebbero maturato grazie alla Presidenza USA, secondo l’inchiesta del “New Yorker” firmata da David Kirkpatrick. Il grosso arriva dal comparto cripto — 2,37 miliardi tra meme coin “Trump” e “Melania”, stablecoin e veicoli di famiglia — poi accordi nel Golfo e l’extra-rendita di Mar-a-Lago. Kirkpatrick parla di una monetizzazione «frenetica, quasi disperata» che valorizza asset creati dall’aura presidenziale. Stima prudente, ricostruita da atti societari e flussi.
Cripto, politica, profitti
Il segmento più opaco è il nesso tra agenda pubblica e utili privati nel mondo cripto. Le stime attribuiscono 385 milioni alle due monete di famiglia e il resto a fee e valorizzazioni del pivot cripto del gruppo media. La famiglia avrebbe detenuto quote dominanti dei token, incassando su vendite e scambi mentre l’amministrazione apriva al settore. È un circuito: la popolarità spinge il prezzo, il prezzo finanzia il potere, il potere allenta i vincoli. Un «market making presidenziale» che sposta incentivi.
Il denaro non arriva solo dagli scambi digitali. Nel Golfo l’impero di licenze e mattoni si è allargato con partner pubblici e para-statali. Il caso-scuola è in Oman: un complesso turistico su terreni di proprietà governativa, con ritorni diretti al marchio Trump. Emirati e Arabia Saudita compaiono con sviluppi, fee e legami con fondi sovrani: la politica estera diventa variabile di cassa. Partner e veicoli schermano proprietà e beneficiari.
Mar-a-Lago, la “Casa Bianca d’inverno”
Il resort di Palm Beach è la rendita più visibile dell’aura presidenziale: 125 milioni di profitti extra. Il club è diventato epicentro di raccolte fondi e vetrina per delegazioni; quote d’ingresso alle stelle e ricavi in scia all’ascesa del proprietario. Gli apparati federali hanno pagato alloggio e servizi durante le visite, alimentando cassa nelle proprietà. Mar-a-Lago ha alzato membership e indotto di eventi.
Il contatto più esplicito tra diplomazia e affari è l’investimento da 2 miliardi del fondo sovrano saudita in Affinity Partners, creato da Jared Kushner sei mesi dopo la fine del suo incarico. Il comitato interno del PIF l’aveva bocciato per «inesperienza» e fee «eccessive», poi il principe ereditario ha imposto il via libera. Gli atti della Commissione Finanze del Senato registrano commissioni elevate, nessun ritorno agli investitori e una clausola che rende rinegoziabili i fondi nel 2026.
Nel mosaico rientra anche un jet di lusso valutato 150 milioni, attribuito al Qatar. Il caso riaccende il dibattito sulla Emoluments Clause e si affianca a pagamenti di governi esteri verso le proprietà del gruppo. Nel secondo mandato cade il divieto autoimposto a nuovi accordi all’estero. In gioco anche le clausole sugli emolumenti, i controlli e le verifiche effettive.
La difesa ufficiale di Trump
La Casa Bianca liquida le accuse come «assolutamente assurde»: «il presidente ha agito con integrità e trasparenza», sostiene la portavoce Karoline Leavitt. Ma l’incrocio fra inchiesta, documenti e audizioni restituisce un dato sostanziale: la Presidenza come piattaforma commerciale, con conflitti d’interesse resi strutturali.
Qui il punto non è soltanto penale. È la tenuta delle barriere che separano l’interesse generale dal portafoglio di una dinastia politica. La monetizzazione del potere in scala industriale apre falle nella sicurezza nazionale e deforma l’arena democratica, dove l’accesso si compra in token, in fee, in inviti. L’inchiesta del “New Yorker” consegna la mappa; alle istituzioni resta l’obbligo di chiudere le falle con regole nuove per riportare la politica fuori dal listino prezzi.