A Washington, il bilaterale tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky si è trasformato in un esercizio di diplomazia performativa. Dopo una telefonata con Vladimir Putin e l’annuncio di un possibile vertice a Budapest, il presidente americano ha ricevuto il leader ucraino nella Cabinet Room promettendo «ottime chance di finire rapidamente la guerra». Ma dietro la retorica ottimista, restano le stesse ambiguità di sempre: nessun impegno formale, nessuna data, e un copione già visto.
Zelensky, in giacca nera, ha ribadito la richiesta di missili Tomahawk e garanzie di sicurezza. Trump ha risposto che fornirli sarebbe «un’escalation» ma che «ne parleremo». Poche ore dopo, fonti americane riferivano che Kiev era stata colta di sorpresa dal passo indietro sul tema. L’unico scambio concreto resta simbolico: i droni ucraini in cambio di promesse americane.
Il teatro della pace
Ogni frase del tycoon è calibrata per il pubblico interno. «Putin vuole che la guerra finisca», ha detto, ma nel frattempo ha confermato incontri separati, «non a tre», e un colloquio con il leader russo in Ungheria. La messa in scena del negoziatore-uomo di pace, quella che negli Stati Uniti mobilita l’elettorato stanco delle guerre infinite, si ripete a ogni incontro. Trump parla di “fine imminente” del conflitto da più di un anno, ma nessuna delle sue aperture si è mai tradotta in un tavolo reale.
Le sue “paci annunciate” sono ormai una cifra politica: promesse di disimpegno che diventano slogan elettorali. Nel 2020 il “deal del secolo” tra Israele e Palestina fu lanciato in diretta televisiva, nel 2024 toccò al piano per “fermare” la guerra di Gaza, e ora il copione si replica con l’Ucraina. Ogni volta, il messaggio è lo stesso: l’America forte perché decide quando la guerra deve finire.
Zelensky tra due fuochi
Per Zelensky, l’incontro era una necessità più che una speranza. Dopo la riduzione dei fondi statunitensi approvata dal Congresso e le tensioni europee sul prestito di 140 miliardi garantito dai beni russi congelati, Kiev ha bisogno di conferme. Ha incontrato i dirigenti delle società Raytheon e Lockheed Martin e il segretario all’Energia Wright per tenere aperta la filiera della difesa. Ma la Casa Bianca di Trump resta un palcoscenico instabile: il presidente parla di «grande chance di fermare la guerra», ma nelle stesse ore telefona a Putin, rilancia l’amicizia con Orbán e lascia intendere che «gli Stati Uniti compreranno droni ucraini».
Il tono di Zelensky, misurato e conciliante, è lo stesso dei precedenti incontri. Dal 2019 – quando Trump cercò di condizionarlo per ottenere informazioni su Hunter Biden – i due leader si sono incrociati più volte tra sospetti e sospensioni di aiuti. La loro storia diplomatica è segnata da fiducia intermittente e dall’uso politico dei colloqui. Oggi, quella dinamica si ripete: un leader ucraino in cerca di garanzie e un presidente americano che capitalizza ogni foto come spot elettorale.
L’illusione del negoziato
Trump promette un vertice a Budapest con Putin «entro due settimane». L’Unione Europea, prudente, lo definisce «benvenuto se conduce a una pace giusta». Ma la logica resta la stessa: ogni volta che il conflitto entra in stallo, l’ex tycoon torna a proporre un suo “accordo personale” con Mosca, in realtà mai definito. Gli stessi funzionari europei ricordano che «nessuna decisione sull’Ucraina può essere presa senza l’Ucraina».
L’incontro del 17 ottobre non ha prodotto svolte, ma ha consolidato una narrazione: Trump come mediatore unico, Zelensky come interlocutore riconoscente, Putin come figura da riportare “al tavolo”. È una rappresentazione utile per tutti tranne che per la guerra. La diplomazia ridotta a sceneggiatura continua a produrre applausi, ma non soluzioni.