Una Pizzarotti in faccia a Grillo. Il magro bottino dei ballottaggi inquieta i Cinque Stelle: Di Maio & co. ora disposti a tutto pur di non perdere consensi

Una Pizzarotti in faccia a Grillo. Il magro bottino dei ballottaggi inquieta i Cinque Stelle: Di Maio & co. ora disposti a tutto pur di non perdere consensi

Hai voglia, sul blog di Beppe Grillo, a ripetere come un mantra che è tutta colpa dei media che dipingono i 5 Stelle come “il male il male dell’Italia e che la soluzione sono i soliti”. Il tutto, per rendere l’atmosfera più scenografica, con un Grillo nei panni di Tony D’Amato, il coach vecchio stile di Ogni maledetta domenica. Ma no: nemmeno un Grillo versione Al Pacino può riuscire a far apparire d’oro ciò che, suo malgrado, oro non è. E non perché il Movimento 5 Stelle abbia perso. Più che altro ha non-vinto. I conti il portavoce M5S li ha fatti, e anche bene: indubitabile, ad esempio, che i 5 Stelle hanno vinto otto ballottaggi su dieci, passando così da 37 sindaci a 45, “un aumento di oltre il 20%”, come andava ripetendo ieri Luigi Di Maio. Ancora una volta, dunque, il fatato mondo del ballottaggio salva quella che fino al primo turno poteva essere considerata una Caporetto per Grillo. Cinque Sberle più che Cinque Stelle. Parlare di vittoria, però, è esagerato e, di fatto, tutti i vertici sono stati comunicativamente furbi a far passare un messaggio di “vittoria” ai propri elettori e simpatizzanti, senza però mai proferire esplicitamente la parola “vittoria”, di modo da evitare attacchi scontati e, dopo tutto, legittimi.

Magro contentino – A entrare nel merito, però, le otto nuove bandierine sono state piantate in piccole realtà. Resta – unica vera nota di merito – l’ottima gestione a Carrara, fortino del Pd (da sempre amministrata o da sinistra o da centrosinistra), e ora finito in mano al pentastellato Francesco De Pasquale che vince con il 75% dei voti e lascia a poco più del 35,5% il candidato Pd Andrea Zanetti. Per il resto parliamo di Fabriano, Acqui Terme (strappato per cinque voti di differenza al candidato di centrodestra) Mottola, Canosa e Santeramo in Puglia. Vittorie importanti, certo, ma che hanno un peso infinitesimale. Un po’ come esultare ad una partita di beneficenza: ti rallegra ma sai che in fin dei conti non conta granché, col rischio che l’avversario possa pure prenderti in giro. Diremmo lo stesso anche per le vittorie nelle città satelliti di Roma, Ardea e Guidonia, se non fosse che in tanti, astutamente, hanno giocato la palla a proprio vantaggio. A cominciare dalla senatrice Paola Taverna che, prima tra le prime, si è affrettata a sottolineare che le due vittorie sono la prova provata che “non esiste alcun effetto-Raggi”. Quasi come se questo bastasse ad annullare una gestione fallimentare della cosa pubblica a Roma, senza dimenticare l’ormai certa richiesta di rinvio a giudizio che pende sul capo della sindaca capitolina.

Dissenso da silenziare – Nonostante nessuno ne parli, resta invece il dispiacere per Asti e la beffa della vittoria in solitaria dell’ex, Federico Pizzarotti, a Parma, a guastare una festa che però non può essere tale. Soprattutto la seconda: perché al primo turno i 5 Stelle sono stati devastati e Pizzarotti ha dimostrato di riuscire nell’impresa. Avrebbe avuto un peso diverso vincere nella prima città pentastellata: la riconferma, se non ci fossero stati liti e frizioni tra Pizzarotti e Movimento, sarebbe stata la prova di una gestione della cosa pubblica ottimale da parte dei 5 Stelle. Checché ne dicano Grillo & co., quello che ancora manca al Movimento è proprio la prova del nove che, invece, Pizzarotti ha affrontato e brillantemente superato. Mettendo inevitabilmente in cattiva luce lo stesso Movimento. Come se non bastasse, domenica sera e lunedì a festeggiare con lui c’erano anche la senatrice Maria Mussini e i deputati Cristian Iannuzzi, Samuele Segoni ed Eleonora Bechis. Tutti uniti un tempo nel Movimento, ora tutti stretti intorno a Pizzarotti.

Al Movimento adesso restano i tanti dissapori soprattuto per la gestione degli enti locali, imputata allo stesso leader in pectore Luigi Di Maio. La funzione “call to action”, evidentemente lesiva di quella democrazia dal basso un tempo fondante per il Movimento, basterà ad eliminare frizioni locali? Il tempo lo dirà. Certo è che il Movimento, dopo quattro anni di Parlamento, è cambiato, trasformandosi in un’altra cosa, differente dal non-partito liquido e orizzontale. Lo sanno bene i vertici. L’importante è farlo capire il più tardi possibile ai riottosi meet-up.