A Gaza l’assedio oggi passa dal freddo. A Khan Yunis un neonato di un mese è morto nella notte, nelle tende di Al-Mawasi sferzate dal vento e dalla pioggia. Le autorità sanitarie locali parlano di tredici morti legati all’ondata di maltempo e alla mancanza di ripari adeguati. La linea del fronte si è spostata nella sopravvivenza elementare: scaldarsi, asciugarsi, restare vivi.
Il cessate il fuoco continua a reggere come dispositivo di controllo. Sulla carta. Sul terreno si stringe il rubinetto degli aiuti. Israele ha respinto la registrazione a quattordici organizzazioni non governative, imponendo una scadenza operativa che equivale a un ritiro forzato. L’effetto pratico è misurabile: l’accordo del 10 ottobre parlava di 600 camion al giorno; Ong e Nazioni Unite contano flussi reali che oscillano tra 100 e 300, con una quota rilevante di beni commerciali. La fame e il freddo hanno una grammatica amministrativa.
Intanto il lessico bellico lava le mani. Un colpo “mancato” finisce tra i civili, feriti inclusi; parte un’indagine interna. Errore, deviazione, accertamenti. La “linea gialla” che separa e autorizza resta una linea mobile: chi passa, chi resta, chi paga l’errore.
Sul lato israeliano, il potere prova a governare anche la memoria. Benjamin Netanyahu tenta di mettere mano all’inchiesta sul 7 ottobre; le famiglie delle vittime e l’opposizione parlano di conflitto di interessi e di un insulto alla verità. È la stessa architettura che si vede a sud: controllo delle procedure, gestione delle responsabilità, dilazione delle risposte.
Le Nazioni Unite e oltre duecento organizzazioni avvertono che, tra deregistrazioni e scadenze fissate, le operazioni umanitarie rischiano il collasso. La seconda fase dei negoziati resta ostaggio di una prima fase che seleziona chi può stare, chi può curare, chi può distribuire, chi può scaldarsi.