Università sul piede di guerra: sciopero contro i tagli, la guerra e la precarietà

I precari dell’università scioperano in tutta Italia: contro tagli, riarmo e sfruttamento. Stabilizzazione e fondi pubblici le richieste

Università sul piede di guerra: sciopero contro i tagli, la guerra e la precarietà

Oggi l’università italiana si è fermata. Con uno sciopero che non nasce da vertici né da proclamazioni centralizzate, ma da una rete diffusa di assemblee di lavoratrici e lavoratori precari che negli ultimi mesi ha ricostruito parola, corpo e presenza dentro gli atenei. Il cuore della protesta è chi insegna, ricerca, amministra, pulisce, trasporta e supporta senza alcun riconoscimento formale. Figure spesso invisibili, ma centrali.

A Bologna, Roma, Napoli, Torino, Firenze, Bari, Milano, Padova, Palermo e in decine di altri poli universitari, la giornata si articola in cortei, presìdi, lezioni pubbliche, giochi simbolici e assemblee sindacali. A partecipare non sono soltanto i ricercatori precari, ma anche studenti, tecnici, bibliotecari, personale esternalizzato. Una mobilitazione ampia che ha raccolto l’adesione di Flc Cgil, Usb, Adl Cobas, Clap, Cub, Confederazione Cobas, Usi e altre sigle.

Un sistema costruito sulla precarietà

I numeri spiegano bene la crisi strutturale. Su circa 53 mila docenti di ruolo, si contano 40 mila figure a tempo determinato, tra assegnisti, borsisti, collaboratori. Solo tra il 2023 e il 2024, gli assegni di ricerca sono cresciuti del 51%, raggiungendo quota 24 mila. Un incremento sostenuto dai fondi del Pnrr, che sarebbero dovuti servire a stabilizzare il personale e garantire contratti veri. Sono stati invece impiegati per estendere il precariato.

L’introduzione del contratto di ricerca, prevista dalla riforma del 2022, resta sulla carta. I decreti attuativi sono bloccati, e il governo – prima con Draghi e ora con Meloni – ha scelto di aggirare le tutele riproponendo le vecchie formule di sfruttamento con nuovi nomi. Il ddl Bernini, fermato da un esposto alla Commissione europea, mirava proprio a reintrodurre assegni e contratti senza diritti. Gli ultimi emendamenti al decreto Valditara vanno nella stessa direzione.

Tagli e propaganda

Nel 2024 il Fondo di finanziamento ordinario è stato decurtato di 500 milioni. Il taglio previsto per il prossimo triennio supera il miliardo. Alcuni atenei hanno già ridotto i corsi di laurea, tagliato le borse di dottorato, aumentato le tasse, licenziato lavoratori e lavoratrici dei servizi esternalizzati. Le risorse vengono drenate verso fondi competitivi e progetti premiali, che finanziano una percentuale minima delle proposte presentate. Intanto la ministra Bernini parla di rilancio, rivendica 50 milioni per il “rientro dei cervelli” e 37 milioni per i contratti di ricerca. Bastano a coprire tre contratti per ateneo.

Nel frattempo, si spende per il riarmo. La protesta ha scelto di saldare la questione della precarietà con quella dell’economia di guerra. La piattaforma del 12 maggio denuncia l’aumento della spesa militare al 2% del Pil, il progetto RearmEU, la penetrazione delle agenzie di intelligence nei centri di ricerca, il finanziamento crescente delle tecnologie dual use e della ricerca bellica.

Una proposta politica, non solo sindacale

Le richieste avanzate vanno ben oltre l’aumento salariale o la stabilizzazione individuale. Si chiede un piano straordinario di assunzioni: 25 mila ricercatori in tenure track, 5 mila tecnologi, 10 mila tecnici e amministrativi per la reinternalizzazione dei servizi. Si propone di finanziare 5 mila contratti di ricerca all’anno con fondi pubblici, e di estendere la legge Madia al sistema universitario per regolarizzare chi ha già lavorato tramite concorso. Si chiede anche un abbattimento radicale delle tasse universitarie.

L’Italia spende lo 0,70% del Pil per l’università, contro l’1% o più degli altri Paesi europei. Il precariato non è un effetto collaterale, è una scelta precisa. Oggi, chi sciopera lo dice chiaramente: il problema non è tecnico, è politico.

Verso uno sciopero generale

L’obiettivo è costruire uno sciopero generale dell’università pubblica. La giornata del 12 maggio è stata una tappa, ma anche una prova di forza e di visione. La precarietà strutturale degli atenei riguarda tutti: chi insegna e chi studia, chi lavora nei laboratori e chi tiene aperte le biblioteche, chi resiste da anni e chi è appena entrato.

La battaglia in corso non è per salvare l’università dal futuro. È per restituirle un presente degno del suo nome.