Altro che lunghe dissertazioni e analisi sul nesso di causalità tra le patologie tumorali che hanno colpito diversi militari al rientro dalle missioni di pace e le condizioni in cui hanno operato, in aree contaminate dall’uranio impoverito. Altro che tesi negazioniste, in base alle quali tali militari godrebbero di salute migliore di quanti sono rimasti in Italia. Non servono mille verifiche: il Ministero della difesa diventa subito responsabile nel momento in cui ha inviato personale in contesti a rischio senza le necessarie protezioni. Basta quello per dare il diritto a chi lotta contro il cancro di essere risarcito. A stabilirlo, con una sentenza che rappresenta una vera e propria rivoluzione per chi ha dovuto o deve fare i conti tanto contro la malattia quanto contro lo Stato che nega di avere responsabilità in quelle malattie, è stato il Consiglio di Stato.
IL GIUDIZIO. Pronunciandosi sull’appello presentato dal Ministero contro una sentenza del Tar della Toscana, che ha riconosciuto il diritto ad essere risarcito a un caporal maggiore dell’Esercito, colpito da un carcinoma testicolare dopo sei mesi trascorsi nei Balcani, nell’ambito della missione “Althea” nel 2007, Palazzo Spada ha bollato la difesa del dicastero come infondata. I giudici hanno specificato che all’epoca della missione “il rischio della contaminazione era conosciuto o comunque conoscibile, in quanto già documentato da numerosi studi e rapporti di istituzioni internazionali”. Ed è poi diventato noto anche che quel tipo di tumori, da altri studi fatti, è aumentato tra la stessa popolazione residente in quelle aree.
Il Consiglio di Stato ha quindi precisato che nel caso delle missioni internazionali il Ministero è tenuto ad effettuare una verifica di tutti i rischi e che se da una parte i militari hanno il dovere di esporsi al pericolo è un dovere legato solo al pericolo rappresentato dalle forze nemiche. Ma soprattutto i giudici hanno evidenziato che a tale dovere dei militari “si contrappone lo speculare dovere dell’Amministrazione di proteggere il cittadino-soldato da altre forme prevedibili e prevenibili di pericoli non strettamente dipendenti da azioni belliche, in primis apprestando i necessari presidi sanitari di prevenzione e cura e dotandolo di equipaggiamento adeguato o, quanto meno, non del tutto incongruo rispetto al contesto”.
LE REAZIONI. Una sentenza che sembra mettere una pietra tombale sulle mille discussioni sul nesso di causalità tra esposizione all’uranio impoverito e tumori e sulle infinite difficoltà per le vittime di ottenere almeno un risarcimento. “L’avvocato Angelo Fiore Tartaglia dell’Osservatorio militare – specifica il presidente dell’Osservatorio, Domenico Leggiero – è riuscito ad ottenere una pronuncia storica che, nei vari punti, evidenzia e chiarisce ogni dubbio sui doveri da parte dell’Amministrazione della Difesa nei confronti del militare dipendente: sul criterio del “più probabile che non” nel rapporto tra patologia tumorale ed esposizione all’uranio impoverito, sulla non fondamentale importanza del tempo di esposizione, sulla consapevolezza del pericolo da parte dell’Amministrazione e del dovere da parte di questa di provvedere alla tutela e prevenire “ogni minimo rischio”. Una norma sui risarcimenti per le vittime dell’uranio impoverito, impantanata da troppo tempo in Parlamento, diventa ora più che mai urgente, doverosa davanti a 7800 malati e 384 deceduti.