Virtù e tanti vizi nelle nostre imprese in crisi

di Gaetano Pedullà

Il ditino sempre puntato contro lo Stato che spreca e tartassa. Lunghe interviste sui giornali amici per svelare le formule taumaturgiche con cui uscire dalla crisi. Ieri anche i fischi al ministro che all’assemblea dei commercianti tentenna sullo stop all’aumento dell’Iva. A sentire la grande imprenditoria, i mali di questo Paese sono colpa di tutti, tranne che dei nostri industriali, dei nostri costruttori, dei nostri re di denari. Su molte cose, sia chiaro, hanno ragione da vendere. Uno Stato che preleva per le tasse più di metà dei guadagni, che non paga i suoi fornitori, che ostacola l’iniziativa privata con burocrazia, leggi contraddittorie, processi infiniti, non è certo uno Stato amico dello sviluppo. E quindi non è un caso se siamo come siamo, con le pezze al sedere. Ma su molto altro questi imprenditori/prenditori dovrebbero stendere un velo pietoso. Nelle pagine interne oggi vi raccontiamo di come vanno i conti della Confindustria, l’associazione delle grandi aziende, che se oggi presenta un bilancio decente è solo per i contributi versati dalle grandi aziende pubbliche inspiegabilmente associate al sistema privato. Senza contare le spese pazze, degne dei peggiori sprechi della Casta politica. Leggere il servizio del nostro Sansonetti a pagina 5 per credere. D’altra parte, dal quotidiano di proprietà (Il Sole 24 Ore) al vasto patrimonio immobiliare, l’associazione ha una collezione di perdite da far rabbrividire. Ovvio dunque chiedersi: ma se questi gestiscono così le cose loro, come possono dare consigli a chicchessia? Nella ricostruzione di questo Paese, insieme alle grandi riforme che un governo dei larghi dissidi non può fare (basti vedere come Letta ha cercato di arruffianarsi i sindacalisti al congresso della Cisl) serve un ripensamento profondo delle corporazioni, dei gruppi di pressione (associazioni datoriali e sindacati in testa), del ruolo delle imprese e delle professioni. Non esclusa quella dei giornalisti.