Sessantasette giornalisti uccisi in un anno, ventinove a Gaza, tutti colpiti mentre lavoravano. Reporters sans frontières fotografa il paradosso: l’esercito israeliano è oggi il principale pericolo per chi prova a raccontare la Striscia, responsabile del quarantatré per cento dei reporter ammazzati nel mondo. Zittire la cronaca è il primo modo per riscrivere la guerra.
Intanto Gaza affoga sotto sessantotto milioni di tonnellate di macerie, l’equivalente di centottantasei Empire State Building. L’ottanta per cento degli edifici è distrutto o ferito, sotto i detriti restano corpi senza nome che nessuno riesce nemmeno a contare. Per ripulire tutto, ammesso che Israele lo permetta, serviranno anni. Ogni giorno che passa rende la verità un po’ più irraggiungibile.
Fuori dalla Striscia la geografia della repressione è la stessa. I blindati entrano all’università di Al-Quds ad Abu Dis, studentati trasformati in zona militare. A Masafer Yatta un colono armato caccia i contadini dal campo mentre il trattore è ancora acceso. A Gerusalemme Est la polizia fa irruzione nelle sedi dell’Unrwa sfidando i richiami di Madrid e delle Nazioni Unite. Scuole, terra, agenzie umanitarie: tutto ciò che può tenere in vita un popolo diventa un obiettivo.
A Gerusalemme, alla Knesset, il ministro Itamar Ben-Gvir si presenta con una spilla gialla a forma di cappio per sostenere la legge sulla pena di morte per i palestinesi accusati di terrorismo. In Europa intanto esplode l’inchiesta sugli appalti Nato truccati a favore di Elbit, il gigante israeliano delle armi. Le immagini dicono che la guerra contro Gaza passa dai bombardamenti, dall’occupazione dei luoghi di studio, dall’intimidazione dei contadini, dai cappi appuntati sulla giacca di chi governa e dal denaro che circola attorno alle macerie.