Il Tar della Campania ha messo nero su bianco ciò che giuristi, amministratori locali e attivisti avevano denunciato per mesi: l’ordinanza che istituiva le cosiddette “zone rosse” a Napoli è illegittima. Non per un vizio di forma, ma perché rappresenta un abuso sistematico di poteri straordinari per gestire situazioni ordinarie, come la malamovida, il degrado urbano e la microcriminalità. Una censura formale e politica che colpisce al cuore la misura ispirata da una direttiva del ministero dell’Interno, guidato da Matteo Piantedosi.
Con la quale il prefetto veniva invitato a delimitare aree sensibili della città e ad allontanare soggetti “problematici” sulla base di semplici segnalazioni. Il tutto fondato sull’articolo 2 del Tulps, un residuato del 1931 che consente provvedimenti urgenti “per grave necessità pubblica”. Secondo i legali che hanno promosso il ricorso, “la sentenza dichiara apertamente che non vi era alcuna emergenza eccezionale, né alcuna motivazione nuova, idonea a giustificare l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari”. E aggiungono: “Un richiamo forte e definitivo alla legalità costituzionale, contro ogni tentativo di trasformare l’eccezione in prassi”.
Quattro quartieri – Chiaia, Vomero, Decumani e Stazione Garibaldi – erano stati sottoposti a una sorta di coprifuoco selettivo, con divieti di stazionamento e presidi fissi delle forze dell’ordine. Ma la sentenza del Tar, definita da Andrea Chiappetta e Stella Arena, gli avvocati delle associazioni che hanno promosso il ricorso, come “una vittoria dello Stato di diritto”, ha riconosciuto che “le ordinanze del Prefetto erano illegittime e violavano principi costituzionali“, sancendo un principio fondamentale: “Il potere straordinario non può diventare regola ordinaria. Il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente”.
Legalità a geometria variabile
Dall’altra parte ci sono i numeri diffusi dal Viminale: 600 mila controlli e 5 mila allontanamenti. Che non sono evidentemente bastati alla pronuncia di una sentenza favorevole per il ministero.
La reazione della società civile è stata determinante. Una rete di associazioni – tra cui ASGI, A Buon Diritto e realtà napoletane – ha impugnato l’ordinanza, portando il caso davanti al Tar con argomenti solidi: violazione della libertà di circolazione (art. 16 Cost.), della libertà personale (art. 13) e della presunzione di innocenza (art. 27). A sostenere il ricorso anche due consiglieri municipali, che hanno denunciato l’esclusione totale delle istituzioni locali da ogni fase decisionale.
Il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, da tempo scettico, ha parlato di “commissariamento” dei Comuni. Ed è significativo che, dopo la pronuncia del Tar, si siano attivati strumenti alternativi: ordinanze sindacali sugli orari, limiti alla musica nei locali, sentenze civili che impongono risarcimenti per rumori e disturbi. Soluzioni ordinarie per problemi ordinari, come richiede lo Stato di diritto.
Insomma, con la vicenda napoletana, la magistratura amministrativa ha tracciato una linea invalicabile: non si governa in stato d’eccezione permanente.