Così Stato e banche ammazzano le imprese

Di Carola Olmi

Di pagare paga. Ma saldando i suoi debiti in tempi biblici, alla fine la Pubblica amministrazione genera un costo mostruoso per i suoi fornitori: sei miliardi l’anno; 30 miliardi tra il 2009 e il 2013. Una media del 4,2% sul fatturato che se ne va fissa solo per farsi anticipare le fatture dalle banche o per far fronte con mezzi propri ai ritardi nel saldo di quanto dovuto. Secondo un rapporto del Centro Studi Impresa lavoro, siamo di fronte a un furto in piena regola, che insieme alla stretta creditizia sta condannando ormai da anni migliaia di imprese sane a chiudere i battenti. Aziende la cui unica colpa è stata fidarsi dello Stato o degli enti locali per i quali hanno lavorato. In quelle gare vinte districandosi spesso tra richieste di tangenti e burocrazia, c’era infatti un costo occulto che non ha pari in Europa. Se per far fronte al ritardo dei pagamenti le imprese di casa nostra devono sacrificare quasi il 5% dell’intero fatturato (sempre che le banche facciano la loro parte) l’incidenza di questi stessi costi è pari a 4 volte meno per le attività omologhe francesi e 7 volte meno per quelle tedesche.

Impegni traditi
Nonostante il problema sia arcinoto al Governo, che si era impegnato ad accelerare i pagamenti senza però mantenere fino in fondo la promessa, il ritardo nei pagamenti ai fornitori e i debiti fuori bilancio della pubblica amministrazione continuano ad assumere un’urgenza crescente. A questo contribuiscono il peggioramento delle condizioni economiche generali, in particolare quelle delle imprese e il crescente fabbisogno finanziario sia dello Stato, sia degli enti territoriali. I ritardi nei pagamenti hanno iniziato ad accumularsi sia in termini di tempo che di quantità molto prima che il fenomeno fosse riconosciuto e definito come emergenza economica.

Senza dati certi
Secondo uno studio di Intrum Justitia (2013) i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 o 90 giorni a seconda dei termini concordati. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia d’imprese esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale congiuntura economica, poiché ha condotto a un progressivo aggravio della situazione di liquidità delle
imprese in anni di severa restrizione del credito bancario. Nonostante le dimensioni e la rilevanza del fenomeno, allo stato attuale non esiste però una stima precisa dei debiti della nostra pubblica amministrazione verso le imprese. Secondo l’Istat la stima relativa al 2011 indicava un ammontare di 67,3 miliardi (62,5 miliardi nel 2010) di crediti commerciali delle imprese fornitrici della Pubblica amministrazione. Ma un’altra rilevazione condotta da Emanuele Padovani (2013) in collaborazione con Bureau Van Dijk, stima un’ammontare di residui scaduti interni ai bilanci di comuni, province e regioni di 136,9 miliardi. Banca d’Italia, che utilizza un’ulteriore metodologia per le sue stime, basandosi sulle rilevazioni campionarie dell’indagine Invid, nella rilevazione più recente (2011) prevede un ammontare di 91 miliardi (erano 84 nel 2010).

Poco credito
Che abbia ragione l’Istat o la Banca d’Italia, si tratta comunque di moltissimi soldi che finiscono per sottrarre capitale alle imprese. L’ammontare dei crediti commerciali infatti costituisce uno degli elementi fondamentali di fabbisogno di capitale circolante. Per farvi fronte, secondo un’indagine del 2013 dell’Ance (i costruttori), le aziende hanno fatto ricorso all’anticipo fatture in banca (72% del campione), nonché all’apertura di credito in conto corrente (22%), il 20% ha richiesto un finanziamento “a breve”, e il 18% complessivo ha provveduto a cedere (pro-soluto o pro-solvendo) il credito. Ma per le imprese costrette a usare lo scoperto di conto corrente senza affidamento, ovvero senza l’autorizzazione della banca (e sono sempre più numerose), il costo del finanziamento è stato nettamente superiore. Sei miliardi l’anno bruciati. E per tanti anche la beffa del fallimento.

L’IMPEGNO DI SALDARE PRESTO. PROMESSA TOTALMENTE TRADITA

Di Giovanna Tomaselli

Chi ha fatto capire per prima di non credere più alle promesse del nostro Tesoro è stata la vecchia Commissione europea, che in zona cesarini ci ha spedito l’ennesima procedure d’infrazione per i debiti della pubblica amministrazione pagati con un ritardo inaccettabile. Prima Saccomanni e poi Padoan avevano garantito ben altra cosa. Lo Stato avrebbe cominciato ad accelerare il pagamento dei suoi debiti con le imprese.

Illusione ottica
E invece la situazione si è mossa un po’ per poi tornare nel pantano. Tanto che non si è riusciti ancora a sapere a quanto ammontano davvero questi debiti dello Stato e degli Enti locali.
I decreti Monti (dl 35/2013) e Letta (102/2013) relativi ai debiti accertati al 31 dicembre 2012, avevano stanziato 47 miliardi da erogare nel biennio 2013-2014. Di quella massa finanziaria ad oggi sarebbe stata stati pagati solo 23,5 miliardi. La metà dei crediti esigibili al 31 dicembre 2013 sarebbe dunque ancora tutta da saldare. A quelle somme, inoltre, si sarebbero aggiunte le nuove spese e adesso il Tesoro avrebbe bisogno di almeno altri 31 miliardi. Dove trovarli? “Paghiamo tutto entro luglio”, aveva annunciato mesi fa Renzi tra slide e applausi delle imprese. Poi il termine slittò a settembre. Ora manca appena un mese a questa scadenza e a scommettere che sarà onorata non si trova più nessuno. Tanto che la promessa fatta nello studio tv di Bruno Vespa (“al 21 di settembre, per San Matteo, ultimo giorno d’estate, pagheremo tutto e dopo si va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario”) oggi sa di un incredibile azzardo.

Tajani, un finto gufo
Bruxelles invece non si è fatta ingannare e il 18 giugno scorso la Commissione aveva aperto una procedura d’infrazione contro l’Italia accusandoci di non applichare la direttiva Ue sul ritardo dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione. Le imprese non vengono pagate a 30-60 giorni come previsto dalle regole Ue ma con ritardi inaccettabili. Alcune Regioni, come il Lazio, sotto la penultima giunta (Polverini) erano arrivate a superare i mille giorni di ritardo. E non finisce qui. Oltre a saldare con tanto ritardo, molte amministrazioni applicano pure tassi d’interesse per i pagamenti in mora che sono inferiori a quelli previsti dalla direttiva Ue. Altre amministrazioni, invece, ritardano i rapporti sull’avanzamento dei lavori in modo da ritardare anche il pagamento alle imprese. Uno scandalo. Bruxelles ha quindi deciso di inviare una lettera di messa in mora all’Italia, primo passo della procedura d’infrazione. Una decisione che cosò il posto al commissario Antonio Tajani, accusato dal governo Renzi di aver proposto la procedura per una ritorsione politica. E pur di sostituire (punire) immediatamente Tajani Palazzo Chigi ha nominato per appena due mesi al suo posto l’ambasciatore Nelli Feroci. “Quella del neo europarlamentare di Forza italia Tajani è una grave strumentalizzazione dell’Europa e un atto di irresponsabilità contro l’Italia”, averva detto all’epoca il sottosegretario alle politiche europee, Sandro Gozi. Alla luce di quanto sta avvenendo e del perdurare dei ritardi nel pagamento dei debiti delle amministrazioni pubbliche. Debiti che si accumulano perchè i soldi non ci sono. Sia nelle casse dello Stato che in quelle dei Comuni, in parte bloccate dal Patto di stabilità e in parte in default tecnico. Con oltre 180 grandi città oggi a un passo dalla bancarotta, tra recriminazioni per quei pochi Comuni aiutati e il baratro delle procedure che equivalgono a portare i libri contabili in tribunale.