Il telelavoro rende più felici. Eppure i ministeri lo ignorano. La Corte dei Conti bacchetta gli enti pubblici. I giudici: sei mesi di tempo per invertire rotta

Siamo ancora lontanissimi da quel diritto alla felicità che gli americani hanno inserito già nel 1776 nella Dichiarazione d’indipendenza. Il ministro dell’economia, Giovanni Tria, nella relazione sugli indicatori di benessere ha indicato i progressi che starebbe facendo il Paese per diventare più giusto e inclusivo, spiegando che il benessere non si può continuare a misurare solo con il PIL. Eppure anche le piccole soluzioni che potrebbero aiutare tanti cittadini ad avere una vita più felice, nonostante siano regolate da varie leggi e indicate in diverse direttive. non vengono adottate. E’ il caso del telelavoro, ossigeno per quanti hanno mille difficoltà quotidiane, da quelle legate agli spostamenti a quelle della gestione dei figli. Uno strumento ancora ignorato da larghissima parte degli enti pubblici, come accertato dalla Corte dei Conti in una recente indagine, inviata dai magistrati contabili alle Camere, ai diversi Ministeri e al Consiglio di Stato, dando a tutti sei mesi di tempo per affrontare il problema.

LO SCREENING. La sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, presieduta dal giudice Carlo Chiappinelli (nella foto), ha analizzato quanto accaduto nei vari enti negli ultimi anni e ha concluso constatando che solo poche pubbliche amministrazioni hanno dato impulso a una “concreta applicazione” del telelavoro, mentre una buona parte o è rimasta ferma alla fase degli studi di fattibilità o ha ignorato direttamente quello strumento previsto dalle norme, volto “alla promozione della conciliazione dei tempi di vita e d lavoro” e che dove è stato utilizzato ha dato ottimi risultati.

NO AL CAMBIAMENTO. Gli stessi giudici sono convinti che il telelavoro porterebbe numerosi vantaggi, riducendo anche i fenomeni di assenteismo. A brillare al momento è però solo l’Agenzia delle entrate. L’ente guidato dal generale Antonino Maggiore ha infatti impiegato tale strumento con 400 lavoratori, seguito dal Mise con 288, dal Mef con 218, dall’Agenzia delle dogane con 64, dal Viminale con 60 e dal Ministero della salute con 32 dipendenti. Lavorare da casa utilizzando un terminale, in particolare per chi non deve far altro che archiviare dati, è però ancora tabù negli altri dicasteri. Non hanno approntato neppure un piano in materia il Miur, il Ministero dell’ambiente, quello dei beni culturali, il Ministero della giustizia, lo stesso Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Ministero della difesa, il Mit e la stessa presidenza del Consiglio dei ministri.

Un vuoto nonostante la legge del 2015 sulle “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” abbia previsto, nell’arco di tre anni, ormai superato, che almeno il 10% dei dipendenti pubblici, nel caso ne facessero richiesta, venissero messi in condizione avvalersi di tali modalità di lavoro, “senza subire penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e di avanzamento di carriera”. Per la Corte dei Conti tutto a causa di “un ritardo organizzativo-culturale” da parte delle amministrazioni pubbliche. Con il risultato che l’applicazione del telelavoro risulta ancora “largamente lacunosa e carente”. Eppure proprio il ministero retto da Giulia Grillo ha constatato che chi lavora da casa produce di più, con una maggiore qualità ed è più felice. Sei mesi di tempo per cambiare. E gli enti che non intenderanno trovare delle soluzioni in materia dovranno comunicarlo in fretta alla stessa Corte dei Conti, spiegando le ragioni per cui non vogliono sfruttare lo strumento del telelavoro, che consentirebbe anche agli stessi enti di risparmiare. Anche questo serve ad elevare il benessere dei lavoratori.