La paura ai tempi del Coronavirus. Dalle fortezze assediate alle moderne epidemie. Nel saggio di Filoni ecco spiegato come cambia il male

Mai come in questi giorni di inquietudine epidemica, caratterizzati da navi-lazzaretto, quarantene, aree di bio-contenimento, esili ospedalieri e una manciata di decreti e ordinanze che sospendono le normali pratiche di contiguità fra cittadini, ci può venire incontro, con tutte le suggestioni storiche del caso, il bel saggio di Marco Filoni, giornalista e ricercatore, Anatomia di un assedio (Skyra, pagg. 101, euro 18).

Perché città e paura è un gemellaggio di antico conio che parte dal millenarismo biblico, passa per le controversie e il lustro filosofico della polis greca, transita per i fasti rinascimentali e le loro smanie di perfezione ideale, per inabissarsi nel tumulto di una modernità che, dallo spleen metropolitano dei flaneur, giunge fino a una attualità dove panico, paranoia, instabilità sono materia sempre calda e malleabile nelle mani di disinformatori professionisti e leader populisti.

Ma di chi si ha terrore (territorio, nota Filoni, potrebbe derivare proprio dal verbo terreo)? Di un nemico esterno, sulle prime. Eserciti avversari, conquistatori, teppaglia occasionale che cerca di penetrare nelle mura e nei perimetri difensivi della comunità, sempre più massicci, sorvegliati, spinati, militarizzati. è il sacro a fare da mito fondatore di una città; gli antenati, gli eroi, i tracciatori dei primi solchi assurgono a culto e le vestigia che li ricordano a luogo di memoria, simbolo di appartenenza. Tomba e Tempio. Ma progressivamente, la città comincia a esporsi lungo il crinale di una dicotomia inaggirabile. Il sacro talvolta è come espulso, dimenticato, e l’operosità dei traffici, del commercio, del logos prende il sopravvento.

Dimensione celestiale che contiene l’instabilità del “nuovo” con i suoi cerimoniali e le sue architetture geometriche quasi innaturali, e dimensione laica che mostra le sue ulcere e i suoi sprofondi di incomunicabilità, cominciano a rincorrersi. La città la si comincia a desiderare secondo un’impronta divina che fa da calco nello spazio della convivenza, per placare la sua babelica infernalità, ma quest’ultima viene anche mitigata nell’immaginario dalle vetrine, dagli oggetti, dalle promesse di felicità tutta profana che la neonata industrializzazione propone all’occhio e alla borsa.

Filoni ci fa capire molto bene come paratie e divisori cedano il passo a soglie e intercapedini, e come il vero assedio sia di un Maligno che non è più “altro” ma il male endogeno serpeggiante del crimine e della disperazione, della povertà e della solitudine. Il perturbante entra nei tornelli del villaggio, incrina le certezze del Nomos, si insinua nelle coscienze, aizza una casta di fomentatori. Vergognarci della paura oggi? No, venerarla piuttosto, per dissiparla.