Uno spread al collo. La crisi ci è costata 50 miliardi. Ecco quanto abbiamo bruciato con l’esplosione degli interessi sul debito pubblico

In questi ultimi anni la crisi dello spread è costata circa 50 miliardi di euro alle casse dello Stato. Una cifra che rappresenta la differenza tra la spesa degli interessi nel clou dell’emergenza e quanto lo Stato avrebbe pagato per il servizio del debito in una situazione normale. La stima è contenuta in un’analisi realizzata dal Centro studi ImpresaLavoro che ha preso in considerazione il periodo 2008-2015.

Durante la crisi dei debiti sovrani del 2011-2012, lo spread raggiunse livelli molto elevati, con una punta pari a 552 punti base il 9 novembre 2011: quel giorno il governo italiano doveva offrire un tasso di rendimento superiore di più di cinque punti percentuali rispetto al governo tedesco. Tre giorni dopo si dimise il governo Berlusconi e quattro giorni dopo si insediò il governo Monti. In pratica, la crisi dello spread portò in sette giorni a un cambio di governo, chiudendo l’era del più longevo primo ministro italiano. Ma quella crisi non fu l’ultima per l’Italia: dopo una rapida discesa dei tassi, nel luglio 2012 lo spread tornò a salire pericolosamente, raggiungendo un picco il 24 luglio con un valore pari a 537 punti base: in quei giorni intervenne Mario Draghi che per fermare la crisi dei debiti sovrani propose il Fondo Salva Stati e arrivò a dichiarare che la BCE avrebbe fatto tutto il necessario («whatever it takes») per salvare l’euro e le economie europee.

Nello studio di ImpresaLavoro si legge che «il valore di 50 miliardi di euro si deve considerare con estrema cautela per due ordini di ragioni, qualitativa e quantitativa: utilizzare la proporzione fra BTP a 10 anni per stimare l’impatto sull’insieme dei titoli di Stato può rappresentare una semplificazione, sia pure efficace. Inoltre, non necessariamente la valutazione sui risparmi su uno specifico titolo può essere applicata agli altri titoli. Tuttavia, come specifica un recente studio della Banca d’Italia, la causa principale della tensione sullo spread riguardava il merito di credito. Questo significava che lo spread dipendeva da condizioni di instabilità interne che portavano incertezza: maggiore è l’incertezza sulla valutazione di solidità di un debitore, più alto è l’interesse che gli investitori chiederanno per finanziarlo».

In sostanza, la crisi dello spread è stata una crisi di percezione della solidità del nostro Paese. Il punto è che, a differenza di Paesi percepiti come più solidi, i nostri finanziatori ci hanno chiesto un premio per finanziarci in questi anni che potrebbe quantificarsi appunto nell’ordine dei 50 miliardi di euro, circa 3 punti percentuali di PIL: una cifra difficilmente sostenibile nel tempo.

«Nei primi undici mesi del 2015 il nostro debito pubblico è aumentato di ulteriori 76 miliardi di euro e per ora scende soltanto nelle previsioni del governo, tutte da confermare, per gli anni a venire» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Una riedizione di quanto avvenuto nel 2011 è stata sin qui scongiurata dall’attivismo della Bce e di Mario Draghi ma l’alto debito pubblico del nostro Paese ci espone costantemente al rischio di finire in balìa delle turbolenze dei mercati finanziari con costi molto alti, sia dal punto di vista economico che politico. Ricordiamoci poi – conclude Blasoni – che se il QE per il momento ci preserva dall’incremento degli spread nulla può sulla debolezza delle nostre banche che è un riflesso della debolezza di un paese troppo indebitato. C’è solo un modo per evitare questo rischio ed è rimettere in ordine i nostri conti pubblici, riducendo l’ammontare del nostro debito. Un’operazione che, numeri alla mano, al governo non sta riuscendo»