La Sveglia

Dieci anni di Jobs Act e la dignità (persa) del lavoro

Dopo dieci anni di Jobs Act la dignità del lavoro è ormai un ricorso lontano ed è ora che il Pd ne prenda coscienza.

Dieci anni di Jobs Act e la dignità (persa) del lavoro

Avevano promesso più diritti, hanno prodotto più dimissioni. Dieci anni dopo, il Jobs Act resta il monumento più alto alla precarietà di Stato: un’impalcatura legislativa costruita per fare cassa sulle vite altrui. Altro che crescita: l’Italia è ferma, anzi retrocede. I contratti stabili arrancano, i salari reali crollano, i giovani laureati fuggono. Il mercato del lavoro si è riempito di part time imposti, subappalti opachi, licenziamenti facili. La sicurezza? Peggiorata. Dal 2015 in poi, gli infortuni sul lavoro sono tornati a salire. Più flessibilità ha significato meno dignità.

Il rapporto della Fondazione Di Vittorio è impietoso. I contratti a termine sono il nuovo standard, soprattutto per chi ha studiato. Le donne pagano due volte: più precarie e più part time, spesso controvoglia. I giovani non aspettano nemmeno più il posto fisso: prendono l’aereo. E il Mezzogiorno affonda, mentre la produttività resta inchiodata ai livelli del 2000. Il capolavoro neoliberista ha ridotto il lavoro a merce deperibile, mentre la politica si congratulava con se stessa.

Il risultato è un Paese svuotato, con oltre mezzo milione di under 35 andati via nell’ultimo decennio. Il 43% di loro è laureato. Il Jobs Act ha spacciato come riforma moderna ciò che è, nei fatti, un ritorno all’Ottocento: niente reintegro, poche tutele, un’intera generazione usata come manodopera a perdere.

Ora, qualcuno prova a rimediare. I referendum del prossimo giugno possono essere il primo colpo al cuore di questa precarietà legalizzata. Non cambieranno tutto, ma interrompere l’emorragia è già rivoluzionario. E forse servirebbe un presa di coscienza compatta nel Pd che del Jobs Act ne fu fautore.