Due bambini morti di fame nella stessa mattina. Uno aveva 40 giorni. Nessuno li ha contati tra le vittime ufficiali. All’ospedale Al-Quds di Gaza, altri 118 feriti si erano messi in fila per un aiuto che non è mai arrivato, colpiti mentre aspettavano gli aiuti umanitari. L’AFP lancia un appello disperato: i suoi giornalisti rischiano di morire di stenti. “Non posso più lavorare – scrive Bashar, 30 anni – il mio corpo è troppo magro”. Il fratello è morto di fame. Gli operatori dell’informazione, unici testimoni rimasti, consumati come i civili che raccontano.
Il capo dell’IDF annuncia “risultati significativi” nella guerra più complessa mai combattuta. L’obiettivo resta lo “smantellamento di Hamas”. Intanto, l’esercito israeliano uccide civili disarmati in attesa di cibo, bombarda ospedali, vieta ai media internazionali l’accesso alla Striscia. Il fotografo muore di fame, il bambino muore nel sonno, e il mondo continua a parlare d’altro.
Ogni giorno che passa segna un passo oltre il confine che separa la guerra dal genocidio. Non è un’accusa: è un dato. Le Nazioni Unite denunciano la carestia indotta, i crimini di guerra, l’annientamento deliberato della popolazione. Gaza è diventata il luogo dove si sperimenta l’impunità in diretta.
Nel frattempo, gli Stati Uniti versano milioni per costruire nuove basi militari israeliane, e l’82% degli ebrei israeliani – secondo un sondaggio – sostiene l’espulsione dei palestinesi da Gaza. Anche questo è un fatto. La morte non fa più rumore. La fame, ancora meno. Ma la Storia, quella sì, terrà memoria di ogni omissione.