Sessantamila morti. Sessantamila. Lo scriviamo tutto in lettere, perché è così che si contano i crimini storici: con parole che restano. La fame – che secondo l’Integrated Food Security Phase Classification sta “già realizzando lo scenario peggiore” – non è un effetto collaterale: è una scelta deliberata. Martedì a Gaza sono morti “per errore” quelli che aspettavano cibo: perché è così che si muore, a Gaza. Non sotto le bombe, ma per una bottiglia d’acqua.
Donald Trump, tra una buca e l’altra nel suo nuovo golf club scozzese, promette che “il cibo arriverà presto”. Parole vuote, dette come si parla di forniture di lattine alla Casa Bianca. Nel frattempo, il Regno Unito annuncia che riconoscerà lo Stato di Palestina se Israele non accetta una tregua. E Israele, con una faccia che ha smesso da tempo di vergognarsi, grida che è un premio a Hamas. Come se ogni diritto dei palestinesi dovesse essere sottoposto al permesso del loro carceriere.
Due milioni di persone intrappolate, private di tutto. Le Nazioni Unite parlano chiaro: “Il mondo sta guardando un genocidio in tempo reale”. Ma la parola “genocidio” fa paura ai palazzi: preferiscono “crisi umanitaria”. Come se la complicità occidentale non grondasse sangue.
E l’Italia? Un sussurro. Tajani balbetta “sconcerto”. Meloni tace. E mentre le agenzie raccontano bambini scheletrici, noi scegliamo di voltare la faccia. Per viltà, per calcolo, per convenienza elettorale. E allora sì: è anche colpa nostra. Ma più ancora di chi tace, è colpa di chi mente. Di chi parla di civiltà mentre finanzia l’assedio. Di chi firma accordi commerciali con le mani sporche di fame.