C’è un punto dirimente per dividere i collaborazionisti dagli analisti: il piano di Netanyahu non ha nulla a che vedere con la sicurezza o con la fine della guerra. È il compimento di una logica dichiarata: terra al posto delle vite. “Land, Not Life” non è un titolo a effetto, è la formula di governo. Prendere Gaza, non salvarla.
Contro ogni evidenza strategica, l’esecutivo israeliano punta alla spoliazione civile e alla cancellazione fisica di chi la abita: un milione di persone spinte verso lo sfollamento forzato, in una campagna militare che non distingue più tra obiettivo militare e resistenza all’annientamento. Lo stesso establishment israeliano avverte il rischio di una trappola militare e morale, ma la coalizione al potere è salda: la visione messianica di “Greater Israel” giustifica ogni passo, ogni vittima, ogni rovina.
Le vittime palestinesi quindi non sono un “effetto collaterale”. Basta ipocrisia: sono la condizione necessaria del progetto. È questo che rende Gaza il laboratorio di un genocidio visibile, annunciato, documentato giorno per giorno. Eppure, come da mesi, le cancellerie occidentali si rifugiano nelle formule di rito, rimandano, promettono verifiche, si limitano a “monitorare la situazione” mentre il terreno si riempie di fosse comuni e le mappe militari sostituiscono le strade delle città.
Quello che a Gaza si consuma oggi non è l’ennesima pagina nera della storia: è un crimine in diretta, permesso dall’immobilismo di chi dovrebbe fermarlo e scelto da chi lo esegue come dottrina di governo. Mentre quelli si lambiccano sui termini stanno sprofondando le persone.