Benjamin Netanyahu sogna una nuova Nakba. È la grammatica della forza, mentre in Israele i familiari delle vittime annunciano scioperi e blocchi per forzare un compromesso. A Gaza l’offensiva non si ferma: vengono colpite anche aree dichiarate “sicure” come Muwasi, i bambini continuano a morire, la fame è diventata struttura, l’acqua è contaminata, le malattie corrono. È il risultato di un assedio che ha trasformato la sopravvivenza in concessione politica.
Nel frattempo riemergono le parole dell’ex capo dell’intelligence militare Aharon Haliva: per ogni vita spezzata il 7 ottobre “cinquanta palestinesi devono morire”, “anche se sono bambini”, “serve una Nakba ogni tanto”. Non sono scivoloni: sono la verbalizzazione di una dottrina. Il castigo collettivo come metodo, la morte civile di un popolo come prezzo accettabile. Quando il lessico della vendetta diventa politica, il genocidio smette di essere un’accusa e diventa la logica conseguenza.
All’orrore sistemico si affianca una scena che resta negli occhi: il giurista Ghanem Al-Attar cammina alla ricerca d’acqua, vestito con la cura di chi rifiuta di consegnarsi al fango. È la lezione di Primo Levi attraverso il signor Steinlauf: lavarsi nel poco, tenere la schiena dritta, negare il consenso al carnefice. Dignità come ultimo diritto fondamentale.
Per questo l’Europa non può più barattare il proprio silenzio con condizionali diplomatici. Servono sanzioni efficaci, embargo sulle armi, riconoscimento giuridico dei crimini in corso. Chiamare genocidio ciò che coincide con i suoi elementi costitutivi non è un abuso del linguaggio: è un dovere. Il resto è fuffa criminale.
La Sveglia