Giorgia Meloni viene celebrata per la postura ferma sull’Ucraina. In realtà pratica omeopatia diplomatica: dosi infinitesimali di coraggio diluite in litri di propaganda. Quando il dossier è Israele, il governo imbocca l’ambiguità: inchini cerimoniali all’unica “democrazia del Medio Oriente”, zero parole nette sul diritto violato, nessuna conseguenza politica. È una geometria della viltà: basta non guardare e le mappe tornano comode.
L’Italia ripete “due Stati” come un rosario automatico. Se ci credi, condanni gli insediamenti senza caveat, chiedi lo stop alle operazioni che travolgono civili, imponi un percorso misurabile. Qui invece si preferisce la soglia: “seguire con attenzione”, “auspicare”, “monitorare”. Lessico da sonnambulismo istituzionale, utile a rinviare ogni scelta.
La realtà, intanto, incalza: nuovo cemento che spezza la Cisgiordania, richiamo di riservisti, evacuazioni, Gaza di nuovo sotto i colpi. Non è rumore di fondo; è il luogo dove si misura la credibilità. Se la sovranità ucraina non è negoziabile, non lo è neppure il diritto internazionale a sud del Mediterraneo.
Di cosa avrebbe bisogno una premier “seria e pragmatica”? Di frasi semplici e atti conseguenti. Dichiarare illegali gli insediamenti e trattarli come tali in Ue. Condizionare scambi e licenze militari al rispetto del diritto umanitario, con una clausola secca: alla violazione corrisponde sospensione. Votare in modo coerente all’Onu, sostenere un cessate il fuoco con garanzie per ostaggi e civili, spingere un negoziato reale.
Il resto è coreografia. Chi governa non deve tifare: deve scegliere. L’Italia non è spettatrice, pesa. E pesa soprattutto quando decide di non decidere. A forza di fischiettare, la politica estera si riduce a posa da passerella: fotogenica, innocua, inutile. Il coraggio, quello vero, oggi si misura nel rompere la nebbia delle formule e dire con chiarezza da che parte si sta: dalla parte del diritto, sempre, senza ipotesi di sonno. Punto, senza equivoci.