Global Sumud Flotilla sotto attacco, Delia: «Nessun passo indietro»

Dopo l’attacco con drone al porto di Tunisi, la referente italiana Delia conferma: «La Flotilla partirà da Siracusa»

Global Sumud Flotilla sotto attacco, Delia: «Nessun passo indietro»

9 settembre 2025. Tunisi, porto della capitale. Una delle barche della Global Sumud Flotilla è stata colpita da un drone mentre era all’ormeggio. Nessun ferito, danni allo scafo della Family Boat. Le autorità tunisine hanno minimizzato parlando di un incendio accidentale, «forse una sigaretta». I volontari mostrano video e fotogrammi che riprendono un oggetto caduto dal velivolo e l’innesco dell’incendio. Maria Elena Delia, insegnante torinese di fisica e matematica e referente nazionale della Global Sumud Flotilla, definisce l’episodio «un tentativo di intimidazione». Le prossime mosse: partenza confermata dopodomani da Siracusa, questa sera mobilitazione a Roma.

Una missione nel mirino

A inizio maggio la «Conscience», una delle navi più grandi della Freedom Flotilla, fu bombardata da un drone nelle acque di Malta. «Eravamo in Europa. Ora siamo nel porto di una capitale», ricorda Delia. L’obiettivo, secondo l’attivista, è logorare: forzare rinvii, abbattere il morale, spegnere l’attenzione pubblica. «Domani partiamo da Siracusa. Il piano non cambia: convoglio civile, corridoi umanitari, consegna di cibo e medicinali». La barca danneggiata è in grado di navigare dopo le verifiche: la spedizione non si ferma. A bordo l’umore è segnato dall’attacco ma prevale la determinazione: «Chi parte sa che può essere fermato o arrestato, ma anche che restare fermi significherebbe accettare la resa».

La zona grigia delle responsabilità

La versione ufficiale tunisina resta minimalista, ma l’anomalia viene prima dell’impatto: un drone militare sopra un’imbarcazione civile in un porto non dovrebbe esserci. C’è poi un profilo giuridico e simbolico: l’unità colpita batte bandiera portoghese. «Colpire quella barca significa toccare un pezzo d’Europa». Intanto si allarga la delegittimazione: «radical chic», «quattro scappati di casa». È il sarcasmo che erode credibilità e, una volta sedimentato, produce effetti difficili da invertire. «È il lavoro lento delle fake news che conosciamo bene», dice Delia.

Canali “ufficiali” che non esistono

Alla premier Giorgia Meloni che invita a «usare i canali ufficiali», Delia oppone la domanda chiave: quali canali? «A giugno abbiamo tentato l’accesso da Rafah via terra: respinti dall’Egitto. Conosciamo ONG che provano a far entrare cibo e farmaci: non passa nulla». Se vie esistono sono nelle mani dei governi e vanno aperte con atti verificabili, non con dichiarazioni. «Si aprano corridoi e si garantisca il passaggio delle navi civili: questa è la via ufficiale». Nel frattempo resta la pressione dal basso: piazze, monitoraggio dei porti, diplomazia civica. «Ci aspettiamo altri attacchi nelle prossime settimane: la protezione migliore, ora, è la vigilanza pubblica».

Gaza, carestia indotta

A chi accusa la Flotilla di occuparsi solo di Gaza, Delia oppone un dato: la fame non è un disastro naturale. «Non c’è stata una siccità di nove mesi. La carestia è conseguenza del blocco dei rifornimenti deciso dal governo israeliano». Da qui l’insistenza sul carattere umanitario della missione e sul diritto di passaggio: rompere l’assedio con mezzi civili, documentare ogni tratta, non usare la forza. «Siamo barche civili. Trasportiamo aiuti. Chiediamo protezione, non privilegi». L’obiettivo è pragmatico: portare viveri, acqua e medicinali, ma anche testimonianza, perché la rotta sia visibile e più difficile da ostacolare.

L’indifferenza europea

Il tassello che manca è l’Europa. «Viviamo un tempo in cui barche civili vengono aggredite e le reazioni non sono proporzionate alla gravità», dice Delia. Nella pratica: equipaggi che salpano sotto minaccia, porti opachi, autorità che archiviano. Il dibattito, intanto, si perde nei dettagli, mentre resta il punto essenziale: un drone ha colpito un’imbarcazione civile in un porto della capitale tunisina. Da qui l’appello finale: «Nessun passo indietro. Partiremo da Siracusa e chiederemo la tutela che spetta a chi porta aiuti». La mobilitazione di piazza è la barriera minima contro l’assuefazione.

In controluce, l’intervista restituisce l’ostinazione di un movimento che rifiuta l’idea dell’impotenza. La mappa è fatta di tasselli concreti: l’attacco a Tunisi, i precedenti di Malta, la chiusura di Rafah, la retorica dei «canali ufficiali». Chi colpisce prova a trasformare l’eccezione in abitudine. La risposta, per ora, sta nei fatti verificabili: barche civili, carichi tracciati, partenze annunciate, presìdi nelle città. A volte insistere sul reale basta a scalfire la propaganda. «Si parte, si documenta, si chiede protezione. E si torna in mare finché serve». Ora.