La Global Sumud Flotilla è salpata ieri da Siracusa, accompagnata dall’incoraggiamento della folla e dalle parole di Maria Elena Delia, portavoce italiana: «A bordo ci sono medici, giuristi, insegnanti, professionisti che scelgono di non voltarsi dall’altra parte». Non simboli astratti, ma competenze reali. Eppure il governo continua a trattarli come ragazzini da sorvegliare.
Antonio Tajani, in Senato, ha ribadito l’«assistenza diplomatica» ai 58 italiani a bordo, come se l’unica cornice possibile fosse quella dei cittadini da riportare a casa illesi. Una riduzione comoda, che evita di nominare l’assedio di Gaza, il blocco navale illegale e la missione politica che la Flotilla rappresenta. Il ministro ha usato la sua arma preferita: il paternalismo. Si preoccupa dei “sogni” palestinesi, come se fosse generoso concederli. Nel frattempo, l’Italia resta silente di fronte a un genocidio documentato, preferendo barcamenarsi tra i diktat atlantici e l’irrilevanza diplomatica.
Quelle navi non portano illusioni, ma un atto politico concreto che rivela l’impotenza – o la complicità – di chi governa. Non è un corteo folkloristico in mare, è la dimostrazione che cittadini europei si assumono responsabilità che i governi hanno scelto di abbandonare.
La scena è grottesca: da un lato le barche che sfidano il blocco, dall’altro un esecutivo che si limita a mettere timbri mentre a Gaza si contano centinaia di morti ogni settimana. La differenza è tra chi prova a forzare l’illegalità di un embargo e chi, per calcolo politico, si rifugia nella prudenza. La Flotilla è già il promemoria più severo per il governo: non esiste diplomazia credibile quando ci si riduce a custodi del silenzio altrui.