Il nuovo report curato da Lorenzo Ruffino su base Eurostat, consegna una fotografia ostinata: l’Italia è tra i Paesi più sicuri del continente. La media 2021–2023 degli omicidi volontari si ferma a 0,54 ogni 100mila abitanti, seconda soltanto alla Svizzera, con una percezione di problemi di criminalità nel proprio quartiere pari al 6,4% contro il 10% dell’Unione. Numeri comparati e metodo trasparente delineano una tendenza decennale alla stabilità. È da qui che bisogna partire per giudicare proclami e ricette.
Macchina della paura
La destra di governo ha trasformato l’eccezione in regola. Ogni episodio ad alto impatto emotivo diventa un grimaldello per occupare l’agenda e «rimodellare» il codice penale. È accaduto con il decreto Caivano nel 2023 e con le strette successive: si evocano «baby gang» e «città sotto assedio», poi si annuncia l’ennesima tolleranza zero.
Nel frattempo il Viminale certifica che tra gennaio e luglio 2025 i reati complessivi sono calati di circa il 9% rispetto al 2024, con flessioni per furti, rapine e violenze sessuali. Solo gli omicidi segnano un lieve aumento nei volumi assoluti, da 178 a 184 casi, un dato usato come grimaldello per tenere alta la sirena d’allarme e oscurare il quadro generale.
Il capro espiatorio perfetto resta l’immigrazione. Matteo Salvini lo ripete da anni: «Meno immigrazione clandestina, più sicurezza». Eppure le stime della Fondazione Ismu indicano 5,76 milioni di cittadini stranieri presenti al 1° gennaio 2024, con l’area dell’irregolarità in flessione; nello stesso arco i reati calano. La correlazione invocata nella propaganda non si ritrova nei dataset pubblici. Funziona però sul piano simbolico: sposta il discorso dall’efficacia delle politiche a un Noi contro Loro che consola, polarizza e garantisce rendimenti elettorali.
Emergenza come metodo
L’altro pilastro è la normazione-simbolo. Si moltiplicano “zone rosse”, nuove fattispecie e inasprimenti di pena presentati come soluzioni totali. Il messaggio è performativo: si deve vedere l’azione, subito, anche quando la necessità non è supportata dagli indicatori. I confronti europei smentiscono la drammatizzazione: il lavoro di Ruffino ricolloca l’Italia nella parte alta per sicurezza oggettiva e nella parte bassa per insicurezza percepita. Se appena il 6,4% degli italiani segnala problemi di criminalità nel quartiere, mentre la media Ue è vicina al 10%, la narrazione dell’assedio regge solo sul volume dell’amplificazione.
C’è poi la selezione interessata delle serie temporali. Un trimestre in controtendenza diventa la prova regina; dieci anni di stabilità finiscono in nota a piè di pagina. L’eco dei talk show sostituisce i grafici dei report, la narrazione prende il posto dell’evidenza. Così la “sicurezza” diventa un rituale comunicativo: allarme, telecamere, strette annunciate. Si legifera molto e si valuta poco. Intanto l’Italia resta un outlier positivo per omicidi e per insicurezza dichiarata, la propaganda sposta attenzione su misure scenografiche, lasciando prevenzione, prossimità, mediazione dei conflitti, assistenza alle vittime.
Il punto politico è semplice. La paura è una moneta che rende: produce consenso, compatta le file, deresponsabilizza su inflazione, salari, sanità. Ma quella moneta si sbriciola accanto ai numeri. Oggi i numeri, messi in fila con rigore – Ruffino, Viminale, Eurostat – dicono che l’Italia è uno dei Paesi più sicuri d’Europa e che la percezione collettiva può essere manipolata. La scelta è tutta qui: credere alle evidenze e costruire politiche sulla realtà, oppure continuare a fabbricare emergenze per politiche che inseguono l’onda. La sicurezza esiste e si misura; il rumore, per definizione, dura un attimo. È doveroso dirlo, nero su bianco.