Il 2 novembre 2025 scadrà la finestra utile per fermare la proroga del Memorandum Italia–Libia. Nessun segnale è arrivato da Palazzo Chigi: tutto lascia intendere che l’accordo si rinnoverà automaticamente il 2 febbraio 2026 per altri tre anni, fino al 2029. Una continuità che conferma la scelta di legare la gestione della rotta del Mediterraneo centrale alla cooperazione con Tripoli, nonostante i dati, le cronache e le sentenze abbiano messo a nudo gli effetti concreti di questa strategia.
Un rinnovo senza dibattito
Il Memorandum, firmato il 2 febbraio 2017, ha trasformato la cosiddetta guardia costiera libica nel perno delle politiche italiane. Roma ha fornito motovedette, manutenzione, formazione e assistenza tecnica, con l’obiettivo dichiarato di fermare le partenze. Bruxelles ha rafforzato il dispositivo con il Fondo fiduciario per l’Africa e poi con lo strumento Ndci.
In otto anni questo sistema ha intercettato decine di migliaia di persone riportandole in Libia, in centri di detenzione descritti dalle missioni Onu come luoghi di torture, stupri, esecuzioni sommarie. L’Unhcr e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni hanno ribadito che la Libia non può essere considerata un “luogo sicuro”, ma il dispositivo continua a essere finanziato e rinnovato senza un vero passaggio parlamentare.
Le sentenze che smontano Tripoli
Le aule di giustizia italiane hanno iniziato a incrinare la narrazione ufficiale. L’11 giugno 2025 la Corte d’appello di Catanzaro ha confermato l’illegittimità del fermo della nave Humanity 1, affermando che il centro di coordinamento di Tripoli e la guardia costiera libica non possono essere considerati attori Sar legittimi. Una decisione che mina le basi giuridiche dell’intera architettura.
L’8 luglio la Corte costituzionale ha richiamato i limiti alle prassi di fermi e porti lontani per le ONG. Anche la Corte europea dei diritti umani, con la sentenza Hirsi Jamaa del 2012, aveva già chiarito che l’Italia non può sottrarsi alle proprie responsabilità quando delega a terzi il controllo dei migranti in mare. Eppure il rinnovo procede come se queste pronunce non avessero mai avuto luogo.
Spari, morti e silenzi istituzionali
Gli episodi degli ultimi mesi raccontano una realtà che stride con la formula della “cooperazione per salvare vite”. Ad agosto la nave Ocean Viking è stata presa di mira in acque internazionali da una motovedetta libica donata dall’Italia; a fine settembre la Sea-Watch 5 è stata colpita da colpi d’arma da fuoco sparati dalla Ubari 660, una Corrubia trasferita a Tripoli con decreto del 2018; appena ieri un nuovo inseguimento si è concluso con un naufragio e un morto. Intanto le statistiche confermano che il Mediterraneo centrale resta il confine più letale: oltre 2.400 morti o dispersi nel 2024, già più di 1.500 nei primi nove mesi del 2025. La Libia continua a essere il principale punto di partenza, Lampedusa il primo approdo sotto pressione.
Le reazioni non mancano. Quarantadue organizzazioni hanno chiesto alla Commissione europea di interrompere i finanziamenti al dispositivo libico. A fine settembre un appello internazionale ha invocato lo stop al rinnovo e mobilitazioni sono annunciate a Roma. Ma i governi europei difendono il Memorandum come strumento contro i trafficanti e a favore del soccorso. Il risultato, nei fatti, è l’opposto: spari contro navi civili, naufragi, respingimenti verso abusi.
Il rinnovo automatico del Memorandum è ormai una certezza. Dal 2 febbraio 2026 e fino al 2029 l’Italia resterà legata a un accordo che, al di là delle formule diplomatiche, significa continuare a esternalizzare il controllo delle frontiere a un Paese che la comunità internazionale non considera sicuro. Le cronache e le sentenze raccontano già cosa significa: altri tre anni di morti, spari e silenzi.