Trenta eventi meteorologici estremi in sette mesi: alluvioni, frane, trombe d’aria, grandinate, ondate di calore. L’Osservatorio Città Clima segnala la Lombardia come la regione più colpita dell’arco alpino. Mentre le imprese contano tetti divelti, macchinari allagati e linee ferme, nei palazzi resiste un lessico che sfuma responsabilità e tempi: il paradosso di una terra che chiede aiuto e insieme discute se chiamarlo davvero “cambiamento climatico”.
Il lessico del dubbio nei palazzi
La sequenza è precisa. Novembre 2023: Lucia Lo Palo, allora presidente di Arpa Lombardia, dichiara di «non credere che il cambiamento climatico sia frutto dell’uomo», richiamandosi a «cicli naturali della Terra». La sfiducia arriva pochi giorni dopo, ma quella frase diventa un frame. Settembre 2023: Attilio Fontana invita a «non ideologizzare i discorsi sul clima», formula che trasforma un’evidenza scientifica in opinione contendibile. Estate 2023: Matteo Salvini liquida l’eccezionalità del riscaldamento con «d’estate fa caldo, d’inverno fa freddo» e, a proposito dei ghiacciai, ironizza sui «cicli» e sulle «Golf turbo» che non sposterebbero il bilancio globale.
Nello stesso solco, Claudio Borghi minimizza: caldo d’estate, ghiaccio che avanza o arretra, «fa parte della storia del mondo». In Consiglio regionale, Christian Garavaglia difende la linea prudenziale: «esiste un dibattito scientifico mondiale» sulle «fluttuazioni», come se l’attribuzione antropica non fosse da anni consolidata nei rapporti IPCC.
Questo rosario di frasi non è folklore: incide sui bilanci. Se il vertice ambientale evoca le “fluttuazioni”, la manutenzione del reticolo idrico minore slitta; i bacini di laminazione restano sulla carta; l’adeguamento delle reti elettriche e idriche viene posticipato; ai comuni lombardi resta la patata bollente di bandi complicati e cofinanziamenti che mancano. Intanto, ogni grandinata diventa pratica assicurativa e ogni esondazione si chiude con una foto di rito e la promessa di “ricostruire”. Chiamare tutto “maltempo” tiene pulita la coscienza amministrativa, non riduce il rischio.
L’economia reale presenta il conto
CNA Lombardia, l’8 ottobre 2025, mette in fila i danni: trenta episodi estremi tra gennaio e luglio; province come Brescia, Bergamo, Como e Sondrio con centinaia di segnalazioni su strade, ponti, capannoni, linee produttive. «Servono risorse e ristori tempestivi, ma soprattutto un riassetto idrogeologico che il Paese non è riuscito a darsi», avverte il presidente Giovanni Bozzini dopo i sopralluoghi. Le imprese segnalano anche l’effetto “assicurazioni catastrofali”: obbligo di copertura, premi in salita, richiesta di detraibilità almeno parziale. E un promemoria politico: se si trovano decine di miliardi annui per la spesa militare, si trovino risorse stabili anche per la sicurezza del territorio. È la grammatica semplice dell’adattamento, molto lontana dalla polemica.
Il paradosso lombardo si legge anche in contabilità. La Regione che relativizza il clima invoca lo stato di emergenza a ogni stagione critica. Nel 2024 i danni stimati a infrastrutture e attività economiche hanno superato il miliardo; nella prima parte del 2025 la soglia dei seicento milioni è già stata oltrepassata. I bandi PNRR per la difesa del suolo arrancano, i comuni faticano a progettare per carenze di personale e gare deserte. Coldiretti parla di «bollettino di guerra» per i raccolti tra Pavia e Cremona; nel manifatturiero si misurano giornate perse, commesse rinegoziate, penali da ritardi. Qui non c’è ideologia: c’è cassa.
Servono scelte elementari e verificabili: piano pluriennale di manutenzione del reticolo idrico, cantieri per il dissesto, opere di laminazione e drenaggio urbano, criteri assicurativi trasparenti e accessibili. CNA Lombardia chiede «una strategia permanente di prevenzione, manutenzione e protezione civile». È il minimo per un territorio che vale oltre un quinto del PIL nazionale. Continuare con il lessico del dubbio significa codificare il post-disastro come politica pubblica: spendere di più, peggio e sempre dopo. La Lombardia che produce ha già cambiato linguaggio e pretende protezione. Quella che amministra, se vuole governare il presente, cominci col chiamare le cose per nome. Perché l’acqua che entra in fabbrica non ha fluttuazioni: ha un livello, e sale.