Nel punto più controverso della sua informativa al Parlamento Antonio Tajani ha rivendicato l’idea di «coinvolgere le università telematiche per la formazione degli studenti palestinesi in loco», liquidando le obiezioni con un «la formazione a distanza si fa così» rivolto a Pier Ferdinando Casini, tra i più critici in Aula. Il brusìo che ne è seguito fotografa il limite politico e culturale della proposta: non è un piano, è una scorciatoia. Dentro Gaza l’elettricità resta intermittente, le dorsali di rete sono state ripetutamente interrotte, migliaia di studenti e docenti sono sfollati; la priorità rimane ricostruire spazi sicuri, garantire energia e connettività stabile, riattivare servizi minimi.
Presentare l’e-learning come soluzione sostitutiva significa normalizzare l’emergenza e rovesciare il nesso causale: si finge di “portare l’università” dove non ci sono le condizioni minime per fare scuola. Non è solo tecnicamente fragile; è un messaggio politico che sposta la responsabilità dalle condizioni materiali imposte dal conflitto agli strumenti didattici, e trasforma un diritto in un login. Le stesse parole del ministro – «proposta del ministro Bernini», «formazione in loco» – mostrano l’assenza di ogni architettura: nessun accreditamento, nessun protocollo d’esame, nessuna tutela dei dati, nessun corridoio fisico per i laboratori. È annunciata come gesto di cura; somiglia a un maquillage tecnologico.
La pace condizionata e l’asimmetria come metodo
La promessa del «riconoscimento dello Stato di Palestina più vicino» è costruita su una condizione che la rende, di fatto, rinviabile: «un’Autorità nazionale palestinese profondamente rinnovata negli uomini e nei metodi», «Gaza affidata provvisoriamente a un controllo internazionale con partecipazione dei Paesi islamici». Manca qualsiasi definizione di chi certifichi tali “condizioni”, con quali indicatori, in che tempi e con quale base giuridica. È la prospettiva di due Stati, ma solo dopo.
Nello stesso passaggio Tajani parla di «primo grande tassello» a Sharm el-Sheikh e di «svolta storica grazie a Trump», pur ammettendo che molte variabili «sono ancora legate a un filo». Quando il lessico è trionfale e gli strumenti sono vaghi, la politica estera si riduce a comunicazione. E infatti sui capitoli che trasformano un annuncio in politica – mandato e regole d’ingaggio di una forza di stabilizzazione, protezione dei civili, costi, clausole di uscita – non arriva alcun dettaglio operativo, solo l’invito all’«unità del Parlamento». La fotografia di quei minuti, con i banchi del governo semivuoti, racconta meglio delle parole la gerarchia reale delle priorità.
Il racconto autoassolutorio dell’Italia “ponte”
C’è, nell’insieme dell’intervento, una torsione autoassolutoria. L’Italia «ha costruito ponti» mentre «pochissimi Paesi» avrebbero mantenuto canali aperti con Israele e Anp. È un’affermazione smentita dalla realtà europea: l’intera architettura dell’Unione dialoga con entrambe le parti da anni. Rivendicare un’eccezionalità che non esiste serve a giustificare il seguito del ragionamento: se l’Italia è “ponte”, allora la conferenza per la ricostruzione al Cairo diventa il palcoscenico per il “sistema Paese”, il pacchetto da 60 milioni per sicurezza alimentare, sanità e formazione il salvacondotto morale, la tregua olimpica un brand internazionale.
Nulla di tutto questo è sbagliato in sé; lo è l’assenza di governance, criteri, partner attuatori, indicatori e meccanismi anti-speculazione. Anche qui, l’elenco di nomi illustri – ospedali, atenei, filiere – sostituisce l’istruttoria pubblica: chi decide cosa, con quali fondi, a quali condizioni, con quale controllo terzo? L’idea di “ricostruzione” diventa così un catalogo, non una politica.
Il passaggio sulle missioni completa il quadro. Tajani accredita i «Carabinieri presenti in Palestina dal 2013» come prova di una “profonda conoscenza” da mettere «al servizio della popolazione di Gaza». L’errore cronologico non è il punto; il punto è l’uso strumentale della memoria istituzionale per coprire l’assenza di un mandato attuale e di una cornice legale internazionale per qualsiasi presenza sul terreno. Se la prova della nostra competenza è una data, significa che non c’è un progetto da spiegare. Se la cornice è «ci inchiniamo a Pizzaballa» e «giorno della speranza», significa che alla complessità del diritto internazionale si preferisce la rassicurazione del simbolo.
La coerenza si misura nelle scelte, non nelle frasi. Dire «riconoscimento più vicino» e insieme rinviarlo a condizioni non definite trasferisce sui palestinesi il peso della prova; annunciare “formazione a distanza in loco” senza infrastrutture né tutela significa scaricare sugli studenti la resilienza che spetta alla politica; invocare «unità» mentre si costruisce una pace condizionata e una ricostruzione senza architettura pubblica è chiedere una delega in bianco.
In Aula, tra un applauso bipartisan alle forze dell’ordine e l’ennesimo richiamo agli “estremisti pro Pal”, non c’era un piano italiano per la pace: c’era un racconto che pretende di bastare a sé stesso. Il resto – governance, diritto, responsabilità – è rinviato alla prossima conferenza, al prossimo annuncio, alla prossima “speranza”. La politica estera, però, non è un comunicato: è catena delle decisioni, verifiche, impegni misurabili. Oggi da Tajani non sono arrivati.