Ci avevano provato nella precedente legislatura, durante il governo giallorosso. Ma il disegno di legge sulle liti temerarie contro i giornalisti, presentato dall’ex senatore Cinque Stelle Primo Di Nicola, approvato in commissione al Senato a dicembre 2019, non arrivò mai all’esame dell’Aula di Palazzo Madama. Nonostante il complesso lavoro di mediazione, sotto la regia dell’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che riuscì a mettere intorno a un tavolo gli emissari di tutte le forze di maggioranza che sostenevano il Conte II fino a trovare la quadra intorno a un testo condiviso.
La legge Di Nicola, composta di un solo articolo, nella versione finale emendata in base all’intesa di maggioranza, disponeva nei casi di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, delle testate giornalistiche online o della radiotelevisione “in cui risulta la malafede o la colpa grave di chi agisce in sede di giudizio civile per il risarcimento del danno” che il giudice, con la sentenza che rigetta la domanda, condanni l’attore “oltre che alle spese di cui al presente articolo e di cui all’articolo 91, al pagamento a favore del convenuto di una somma, determinata in via equitativa, non inferiore ad un quarto di quella oggetto della domanda risarcitoria”. Ma quando arrivò il momento di portarlo in Aula, il disegno di legge, licenziato dalla Commissione e già calendarizzato per l’Aula, sparì improvvisamente dall’ordine dei lavori la mattina del voto al termine di una concitata conferenza dei capigruppo.
Un segnale inequivocabile: nella variegata maggioranza giallorossa – che andava dai 5 Stelle al Pd, da Liberi e Uguali a Italia Viva – a più di qualcuno quella legge non andava affatto a genio. Tanto da affossarla a pochi minuti dal via libera. Il resto è storia recente. C’è voluto l’attentato al conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, per tornare a parlare di azioni risarcitorie promosse contro i giornalisti con finalità intimidatorie. Ancora una volta per iniziativa dei 5 Stelle: la senatrice Lopreiato ha recuperato il testo Di Nicola nella versione licenziata a suo tempo dalla Commissione.
Con un ddl a sua firma composto, come allora, di un solo articolo: «Nei casi di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, delle testate giornalistiche online o della radiotelevisione, in cui risulta la mala fede o la colpa grave di chi agisce in sede di giudizio civile per il risarcimento del danno, il giudice, anche d’ufficio, con la sentenza che rigetta la domanda, condanna l’attore, oltre che alle spese di cui al presente articolo e di cui all’articolo 91, al pagamento a favore del convenuto di una somma, determinata in via equitativa, non inferiore ad un quarto di quella oggetto della domanda risarcitoria».
E come allora con la stessa finalità: “Un corretto e bilanciato sistema di protezione della professione di giornalista nei confronti di un uso strumentale dell’azione civile volto a frenare la libertà di espressione con iniziative vistosamente temerarie che agitano lo spettro di copiosi risarcimenti volti a tacitare la voce della libera stampa”. Da Di Nicola a Lopreiato, sei anni dopo, la Legge Ranucci torna all’esame del Parlamento per la meritoria iniziativa dei Cinque Stelle. Ma con quali possibilità di vedere la luce? Poche o addirittura nulle. Nel 2019 fu affossata dai partiti che sedevano in maggioranza.
E oggi che i pentastellati sono all’opposizione le chance sono vicine allo zero. Il freno alla mannaia delle azioni legali contro i giornalisti è un po’ come la solidarietà di certa politica al conduttore di Report dopo la bomba che avrebbe potuto ucciderlo. Un argomento buono da sostenere in pubblico per poi affossarlo nelle riunioni di Palazzo lontano dai riflettori. Senza neppure metterci la faccia.