Gaza conta ancora i dispersi. Nel quartiere Al-Daraj la Protezione civile parla di un edificio collassato, famiglie intrappolate sotto le macerie, i soccorritori che scavano a mani nude perché non resta più niente da usare. Il Comitato per le persone scomparse stima oltre diecimila corpi ancora sepolti. È una contabilità che non si chiude mai.
Intanto, le storie hanno nomi precisi. Shaaban Mohammed Eid, portiere dell’Academy Al-Hilal, dieci anni, sogno semplice: diventare calciatore. È stato ucciso. “Ha raggiunto suo padre”, dice la famiglia. Un modo per tenere insieme il dolore in un posto in cui non esiste più la grammatica della vita quotidiana.
In Cisgiordania la guerra ha un volto diverso, ma non meno violento. A Beit Rima le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa dell’ex detenuto Mazen Rimawi: famiglia bendata, fermata, trattenuta in salotto trasformato in stanza degli interrogatori. Alcuni rilasciati, altri arrestati. L’ultimo mese ha contato più di 540 fermi tra Cisgiordania e Gerusalemme, donne e minorenni inclusi. A Qatanna, a nord di Gerusalemme, una casa è stata demolita dai bulldozer, polvere che si posa sui vestiti come una bandiera che non chiede permesso.
A nord, sul confine libanese, il cielo è stato tagliato da nuove ondate di raid. Colonne di fumo alte, abitazioni che tremano. Un conflitto che si accende a intermittenza, ma resta pronto a dilagare.
Sul tavolo della diplomazia, si registra la consegna alla Croce Rossa dei resti di un ostaggio israeliano. Viene chiamato «segnale di progresso» nella tregua firmata il 10 ottobre. Ma la cronaca delle ultime ventiquattr’ore racconta altro: macerie, arresti, case che crollano, un bambino con i guanti da portiere che non potrà più crescere.
Occhi su Gaza, si resta qui.