L’avviso di conclusione indagini notificato a Salvatore Borsellino formalizza ciò che era trapelato nei giorni precedenti, quando – tra il 7 e l’8 novembre – il suo nome era stato iscritto nel registro degli indagati. La Procura di Palermo lo accusa di diffamazione aggravata dopo la querela del generale Mario Mori, l’ex capo del Ros che sostiene di essere stato vittima di affermazioni lesive della sua reputazione in relazione alla vicenda dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. È l’ennesimo sismografo di una ferita che non si chiude dopo trentatré anni di piste interrotte e depistaggi certificati.
La linea sottile tra assoluzioni e vuoti della storia
Le dichiarazioni contestate a Borsellino riguardano le presunte conoscenze e l’influenza di Mori sulle ricostruzioni dell’agenda nelle Commissioni Antimafia. A sostegno della propria tesi, Borsellino richiama gli elementi che negli anni hanno alimentato la sua battaglia civile: le immagini del capitano Arcangioli con la borsa del magistrato subito dopo l’esplosione, l’appunto attribuito a Arnaldo La Barbera che indica la consegna di «una borsa in pelle» e di «un’agenda» alla Procura di Caltanissetta il 20 luglio 1992, il giorno dopo la strage. Una catena di passaggi che non ha mai trovato un chiarimento definitivo.
Il percorso giudiziario di Mori, è bene ricordarlo, è costellato di assoluzioni: il processo sulla mancata perquisizione del covo di Riina, quello sulla mancata cattura di Provenzano, la sentenza definitiva sulla trattativa Stato-mafia. In alcuni casi i giudici hanno adottato la formula «il fatto non costituisce reato», alimentando per anni il confronto tra verità giudiziaria e verità storica. Sul fatto che, pur non costituendo reato, esiste.
Il fronte civile parla di «attentato giudiziario»
Di fronte a questa querela, il Coordinamento nazionale delle associazioni dei familiari delle vittime di stragi e attentati ha reagito con un documento firmato da Bolognesi, Milani, Manca, Caccia e altri, in cui l’azione contro Borsellino viene definita un «attentato giudiziario». Un modo per rappresentare la preoccupazione che lo strumento penale possa diventare un mezzo per limitare chi resta impegnato a interrogare i buchi neri lasciati dalla stagione stragista.
Il Coordinamento usa la parola «grottesco» nel constatare che la persona che da oltre tre decenni chiede conto della scomparsa dell’agenda rossa diventi oggi imputato, mentre molti nodi degli anni ’92 restano sospesi. Le famiglie delle vittime ricordano come numerosi uomini degli apparati siano passati attraverso processi cruciali negli anni delle stragi e siano stati assolti «perché il fatto non costituisce reato». Parole che danno il polso del conflitto che questa vicenda riapre.
Per Salvatore Borsellino, la querela è “l’occasione per portare l’agenda rossa in un’aula di giustizia”. L’udienza preliminare, attesa nelle prossime settimane, rischia di diventare un passaggio simbolico: da una parte la tutela dell’onorabilità di un ex ufficiale assolto nei processi più delicati; dall’altra il diritto di chi non smette di chiedere verità sul reperto scomparso che rappresenta il cuore irrisolto del 19 luglio 1992.
La vicenda segna l’ennesimo punto di frizione tra istituzioni, memoria e giustizia. A trentatré anni dalla strage di via D’Amelio, ogni passaggio giudiziario sembra ricordare che la distanza tra ciò che è stato accertato e ciò che si continua a cercare non è un capitolo chiuso. È ancora la ferita aperta del Paese.