Alla Cop11 della Fctc, in corso a Ginevra, si discutono le misure più radicali mai messe sul tavolo contro tabacco e nicotina: divieti generazionali di vendita, stop ai filtri, limitazioni sui punti vendita, restrizioni sugli aromi e fine dei sussidi alla coltivazione. È l’agenda che molti governi europei considerano necessaria per arrivare a una generazione “tobacco-free” entro il 2040.
Eppure Bruxelles è costretta al silenzio. Il Consiglio non ha trovato l’unanimità sulla posizione da portare al vertice. A bloccare la linea proposta dalla Commissione è stato un gruppo di nove Paesi – Italia, Grecia, Polonia, Romania, Bulgaria, Lituania, Cipro, Portogallo e Cechia – che ha esercitato il veto sui capitoli più avanzati: le misure “forward-looking”, il pacchetto ambientale e quello fiscale sulle e-cig.
Gli Stati contrari parlano di divieti «eccessivi», privi di analisi socio-economica e potenzialmente favorevoli al mercato illecito. Ma nelle istituzioni europee la lettura è un’altra: quei Paesi temono che un sì dell’UE a Ginevra diventi un precedente pesante quando si dovrà riscrivere la Tobacco Products Directive, fissando standard più severi anche nel mercato interno.
Il ruolo dell’Italia e la filiera protetta
Nella parte più solida del blocco si colloca l’Italia. Il motivo non è solo ideologico. È industriale, agricolo e fiscale. Da più di dieci anni i governi italiani – di ogni colore – proteggono una filiera che tiene insieme oltre 50 mila posti di lavoro tra produzione agricola, trasformazione e industria dei riscaldatori. Gli accordi pluriennali firmati con le multinazionali prevedono acquisti garantiti di tabacco italiano fino al 2027 e investimenti da centinaia di milioni nello stabilimento bolognese dei prodotti riscaldati.
È un sistema che il governo considera strategico: un settore capace di attrarre capitali, costruire export e sostenere intere aree rurali. È qui che si innesta la posizione italiana a Ginevra: la delegazione ha insistito sul rischio occupazionale e sulla necessità di evitare decisioni affrettate che anticipino la riforma europea.
Il paradosso è che proprio mentre l’Oms discute di limitare i nuovi prodotti, l’Italia si presenta come uno dei Paesi più intrecciati con la loro espansione industriale. Gli investimenti nella filiera dei riscaldatori vengono rivendicati a ogni occasione come esempio di innovazione produttiva. E nelle ultime leggi di bilancio Roma ha ripetutamente ridotto o rinviato l’aumento delle accise sui prodotti senza combustione, scelta contestata da società scientifiche e associazioni oncologiche.
Dall’altra parte del tavolo europeo, Francia, Belgio e Paesi Bassi accusano il fronte dei nove di aver ceduto alle pressioni dell’industria. Per loro il prezzo politico è altissimo: l’astensione dell’Ue proprio mentre la comunità scientifica segnala la crescita dell’uso di e-cig e riscaldatori tra i giovanissimi. Il dato sanitario resta drammatico: circa 700 mila morti l’anno nell’Unione.
Le conseguenze di un silenzio
L’astensione dell’Ue alla Cop11 non è un dettaglio procedurale. È un segnale che rischia di ridurre la credibilità del mercato unico in un trattato che per due decenni ha visto l’Europa come il motore delle misure più avanzate. E soprattutto anticipa lo scontro interno che si aprirà sulla revisione delle direttive europee: da un lato i Paesi che spingono per misure di “endgame”, dall’altro chi difende a oltranza le proprie filiere nazionali.
Per la Commissione, la conferenza di Ginevra doveva essere il termometro politico in vista del nuovo testo della Tpd. Il risultato è opposto: l’Europa arriva divisa proprio nel momento in cui cresce l’allarme per la diffusione dei nuovi prodotti alla nicotina. Il focus ora si sposta sul confronto interno, dove la posizione italiana – forte, strutturata, radicata nella filiera – è destinata a diventare l’ago della bilancia.