La coalizione di governo è divisa sul sostegno all’Ucraina: le ultime quarantotto ore hanno reso visibile ciò che a Palazzo Chigi circolava da settimane nelle conversazioni riservate. La svolta arriva negli ultimi giorni, quando Matteo Salvini costruisce un nuovo lessico politico per smontare la linea filo-atlantica di Giorgia Meloni. Il vicepremier introduce l’idea della «triangolazione»: soldi italiani che passerebbero da Bruxelles a Kiev per tornare, sotto forma di contratti miliardari, alle industrie francesi dopo l’accordo Macron-Zelensky sui Rafale e sui sistemi Samp-T.
Il riferimento al «pensionato italiano» diventato finanziatore involontario dell’industria d’Oltralpe è il cuore della nuova offensiva: un messaggio calibrato per intercettare la frustrazione fiscale e industriale del Nord produttivo. A sostegno, arrivano parole identiche da Stefano Ruvolo di Confimprenditori e dallo stesso generale Roberto Vannacci. L’immagine dei «gabinetti d’oro dell’élite ucraina» diventa un totem narrativo intorno al quale la Lega tenta di ricompattare l’elettorato più ostile alla guerra.
L’asse Meloni-Crosetto e il controllo del danno
La reazione istituzionale è immediata. Il Consiglio Supremo di Difesa (Csd) del 18 novembre, presieduto da Sergio Mattarella, ribadisce il «pieno sostegno all’Ucraina» e richiama l’Europa alla necessità di adeguarsi ai nuovi scenari della guerra ibrida. È un messaggio rivolto direttamente alla Lega, che però rilancia. Salvini sostiene che il Csd riguardi «gli aiuti già decisi» e chiede «chiarezza sul futuro»: una formula studiata per salvaguardare la forma istituzionale e al tempo stesso svuotare l’impegno politico dei prossimi mesi.
Parallelamente, Guido Crosetto diffonde un non-paper destinato a blindare la posizione italiana. Il documento individua Russia, Cina, Iran e Corea del Nord come attori di una «campagna ibrida» che punta a destabilizzare l’Occidente con disinformazione, cyberattacchi e pressione migratoria. Un quadro che giustifica – secondo il ministro – la continuità degli aiuti militari a Kiev come misura di autodifesa preventiva. È una costruzione strategica che punta a riportare il dossier su un terreno tecnico, sottraendolo alla retorica populista. Ma la frattura resta.
La spinta radicale e il rischio parlamentare
Se Salvini lavora sull’opinione pubblica, l’ala radicale della Lega entra direttamente nel campo di battaglia parlamentare. Claudio Borghi, in un’intervista a Radio Cusano Campus, annuncia che il partito potrebbe non votare i prossimi pacchetti di aiuti, evocando il «modello Austria» e una neutralità possibile anche per l’Italia. È una presa di posizione che taglia trasversalmente la linea del governo: non più una critica tattica, ma l’idea che Roma possa smarcarsi dalla postura comune europea.
Il richiamo alla corruzione in Ucraina completa il quadro. Le inchieste del Nabu sugli appalti energetici e le pressioni interne al cerchio ristretto di Zelensky diventano munizioni politiche. Salvini sostiene che «una parte dei fondi finisce in corruzione», mentre il Cremlino amplifica il messaggio. Le opposizioni se ne accorgono: Lorenzo Guerini parla di una «lesione dell’affidabilità internazionale dell’Italia», Francesco Boccia accusa la Lega di «ammiccare a Mosca», Davide Faraone definisce Salvini un «avvoltoio».
Nella maggioranza, invece, Forza Italia corre in soccorso di Meloni. Raffaele Nevi avverte che fermare gli aiuti «significa vanificare gli sforzi fatti finora». FdI prova a minimizzare, legando tutto alla campagna elettorale ormai in pieno svolgimento.
Lo scenario che attende la coalizione
A dicembre il governo dovrà rinnovare il decreto per l’invio di armi. È il punto di massima esposizione politica: la Lega difficilmente voterà contro per non assumersi la responsabilità di una crisi, ma potrebbe astenersi o pretendere modifiche che limitino la natura dei sistemi da inviare.
Sul fondo c’è una variabile esterna che pesa: l’attivismo dell’inviato di Donald Trump, Steve Witkoff, atteso in Turchia mentre Zelensky tenta di riaprire un canale negoziale. Se negli Stati Uniti dovesse prevalere una linea più dialogante, la posizione leghista si presenterebbe non come devianza, ma come anticipo di un nuovo paradigma occidentale. È la prospettiva che preoccupa di più Giorgia Meloni.