Le regionali non hanno spostato la mappa, ma hanno spostato gli equilibri. Il centrodestra rivendica la tenuta, eppure dalle urne esce un quadro diverso: la coalizione è più fragile, più dipendente dai territori, più lontana dall’idea di un blocco compatto che governa per inerzia. In Veneto la destra vince, ma non nella forma sperata da Giorgia Meloni. Al Sud perde ovunque, anche dove aveva puntato tutto sulla “nazionalizzazione” del voto. L’astensione resta il convitato di pietra: quando vota metà Paese, nessuno può illudersi che la forza elettorale sia solida. Un segnale che pesa soprattutto su chi governa, perché l’astensione è sempre prima di tutto un giudizio.
Il nodo veneto e la leadership che non si espande
Il Veneto conferma il centrodestra, ma lo conferma alla maniera della Lega, non alla maniera di FdI. Il 36 per cento ottenuto da Stefani è figlio del radicamento di Luca Zaia, non della linea nazionale. È un risultato che salva Matteo Salvini da un regolamento di conti interno dopo mesi di tensioni, ma che allo stesso tempo evidenzia la dipendenza del Carroccio da un modello amministrativo che nulla ha a che fare con la deriva identitaria degli ultimi anni. FdI, fermo attorno al 18 per cento, viene doppiato e perde la possibilità di imporre la propria egemonia nel Nord produttivo.
Anche questo spiega il nervosismo nelle ore successive al voto. Il “fattore Zaia” mette in discussione la narrazione della premier, che da tempo punta alla conquista del Nord come passaggio fondamentale verso la stabilizzazione del consenso. Ma senza candidati riconoscibili e reti locali solide, l’effetto-Meloni non si traduce in risultati territoriali. È la conferma che il partito resta fortissimo nelle rilevazioni nazionali e molto più fragile nella prova reale delle urne locali. È un limite strategico che gli alleati leggono benissimo: la Lega per rivendicare spazio, FI per contrattare da posizione di forza.
Il crollo al Sud e la fretta di cambiare le regole
Campania e Puglia raccontano un’altra storia: quando il centrosinistra si presenta unito, il centrodestra si dissolve. In Campania la sconfitta di Cirielli è bruciante, non solo per l’ampiezza del divario ma perché Meloni aveva investito tutto, ministri compresi, per trasformare il voto in un test nazionale. In Puglia il risultato è persino più netto, e il centrodestra resta confinato in una zona di irrilevanza politica dove Forza Italia tiene più di FdI e la Lega non riesce a costruire nulla.
È qui che va letta la fretta con cui Fratelli d’Italia ha rilanciato il tema della nuova legge elettorale. Non è un’operazione neutra: è la risposta alla paura concreta che, con un centrosinistra compatto, i collegi uninominali diventino una voragine. L’idea di spostare il sistema verso un proporzionale con premio di maggioranza è una mossa difensiva che smentisce il racconto della forza travolgente del governo. La Lega frena: un sistema più proporzionale ridurrebbe il peso del Nord, unico territorio dove resta competitiva. Forza Italia, invece, vede l’occasione per tornare centrale, rialzando la testa nei territori in cui la coalizione ha perso. È il segno che la competizione tra alleati non è più sotterranea.
Dietro le quinte del Nord
Sul fondo resta un’erosione evidente della leadership meloniana: la premier non conquista il Nord, non sfonda al Sud, non controlla i suoi alleati. Salvini sfrutta il voto veneto per blindarsi, Zaia rafforza la sua autonomia, Tajani cresce senza esporsi. È una coalizione ancora in piedi, ma non più ordinata attorno a un centro unico.
L’immagine finale è quella di un centrodestra che regge nelle grandi mappe ma si sgretola nella lettura ravvicinata. La forza numerica non coincide più con la solidità politica, e il 2027 smette di essere un appuntamento da considerare scontato. Il voto regionale non ribalta il quadro, ma lo incrina. E nelle incrinature si vede già il timore che la prossima volta non basti più.