Micro cellulari ai detenuti dell’alta sicurezza, scatta il blitz dell’Antimafia in 12 penitenziari. Trentuno gli indagati sorpresi in possesso di smartphone

Maxi-inchiesta su 31 detenuti in alta sicurezza: come funzionava la rete, quali reati sono ipotizzati e cosa rischiano. Tutti i dettagli.

Micro cellulari ai detenuti dell’alta sicurezza, scatta il blitz dell’Antimafia in 12 penitenziari. Trentuno gli indagati sorpresi in possesso di smartphone

Dopo denunce e sospetti, una maxi-inchiesta coordinata dalla Direzione Investigativa Antimafia (DIA) ha fatto scattare perquisizioni simultanee in 12 istituti penitenziari italiani: 31 detenuti — in gran parte ristretti in sezioni di massima sicurezza — sono ora indagati per introduzione e uso illecito di telefoni cellulari e per ricettazione aggravata dall’associazione mafiosa.

I dispositivi servivano, secondo gli inquirenti, a mantenere contatti con l’esterno, tenere attivi legami con organizzazioni criminali e continuare l’attività mafiosa anche dal carcere.

Come era organizzata la rete di telefonini?

Secondo quanto emerso, l’operazione della DIA ha riguardato istituti penitenziari in Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Abruzzo, Calabria e Campania, segno che non si trattava di casi isolati, ma di una rete ramificata e coordinata.

I dispositivi — oltre 150 telefoni cellulari e 115 schede SIM — venivano resi attivi tramite utenze intestate a soggetti “fantasma” o a cittadini ignari, grazie a negozi di telefonia compiacenti. Alcuni cellulari erano miniaturizzati, più facili da nascondere. Le vie d’introduzione variavano: spedizioni, consegne durante colloqui familiari, complicità di persone esterne o interne alla struttura.

Il metodo consentiva ai detenuti di comunicare non solo con familiari e affiliati liberi fuori dal carcere, ma anche con altri detenuti in istituti diversi, scambiarsi ordini, coordinare traffici e trasmettere messaggi di tipo mafioso (le cosiddette “ambasciate”).

Cosa rischiano gli indagati? Quali sono i reati e le aggravanti contestate?

Le accuse mosse dagli inquirenti sono numerose e comprendono l’introduzione di dispositivi vietati, uso illecito dei telefoni, ricettazione aggravata e — dato il contesto di mafia — associazione a delinquere di stampo mafioso.

Il fatto che la rete servisse a mantenere contatti con l’esterno e a coordinare attività criminali, anche all’interno del sistema carcerario, configura un aggravante significativa. In questi casi le pene previste possono essere molto severe, anche di molti anni di carcere.

Oltre all’aspetto penale, l’inchiesta riflette una falla grave nel sistema di controllo carcerario: la presenza di cellulari mina la finalità rieducativa e mette a rischio la sicurezza interna. Analisti e procure da tempo segnalano un aumento del fenomeno.

Un fenomeno molto diffuso

Questa operazione non è un’eccezione. Nel 2025 e negli ultimi anni vari interventi hanno evidenziato il diffondersi della detenzione illecita di telefoni all’interno di carceri in diverse regioni italiane: dal carcere minorile di Nisida a Napoli, a strutture in Umbria, Toscana, Puglia e Campania.

Secondo i dati raccolti da procure e forze dell’ordine, solo in alcune aree — come quella umbra — nei tre anni precedenti sono stati sequestrati oltre 200 telefoni cellulari introdotti illegalmente nelle carceri.

Le operazioni spesso portano all’apertura di indagini per reati quali accesso indebito a dispositivi di comunicazione, ricettazione, traffico illecito e in alcuni casi persino continuità di attività criminale dall’interno del carcere.

Le implicazioni per la sicurezza e per il sistema penitenziario

La facilità con cui erano introdotti e usati i telefoni dimostra quanto il sistema vigilanza nelle carceri soffra di vulnerabilità strutturali: controlli inefficaci, complicità interne o esterne, carenze nelle ispezioni e nelle verifiche.

Questo fenomeno non riguarda solo reclusi marginali, ma persone detenute in regime di alta sicurezza, spesso con condanne per mafia o gravi reati. Ciò significa che anche organizzazioni criminali radicate sul territorio possono continuare a operare, ordinare traffici e gestire interessi da dentro le celle.

Per il sistema carcerario e per la società è un problema di ordine pubblico: mina gli obiettivi di riabilitazione e mette in pericolo la sicurezza collettiva.

Cosa cambia ora?

L’operazione attuale segna un precedente importante: 31 indagati, decine di telefoni e SIM sequestrati, perquisizioni su scala nazionale. Se confermata dalle indagini, potrebbe portare a processi che fanno luce su una rete di comunicazione mafiosa “invisibile”.

Potrebbero seguire misure straordinarie di controllo: intensificazione dei controlli nelle carceri, controlli più severi su pacchi e colloqui, uso di strumenti tecnologici per bloccare reti mobile dentro le strutture, maggiore monitoraggio.

Sul fronte giudiziario, la convalida dei sequestri, l’uso delle conversazioni intercettate come prove e la contestazione dell’aggravante mafiosa faranno da spartiacque: le sentenze conseguenti potrebbero diventare un deterrente forte per simili fenomeni in futuro.