I negoziati al Cairo sulla seconda fase della tregua a Gaza restano fermi al palo. Fonti arabe coinvolte nelle discussioni, citate da Haaretz, parlano di un clima di sfiducia e di un’impasse che difficilmente si sbloccherà senza una pressione diretta degli Stati Uniti su Israele. Come appare evidente, in gioco non ci sono solo le distanze tra le delegazioni: secondo gli stessi mediatori, né Israele né Hamas sembrano pronti a portare a termine i passi necessari per blindare la tregua. Da un lato, Tel Aviv non appare incline ad accettare un ritiro più ampio delle proprie forze armate prima delle elezioni previste il prossimo anno; dall’altro, Hamas non intende consegnare le armi senza garanzie chiare sul ritiro e sulla gestione del “giorno dopo”.
Proprio per questo i governi del Cairo, di Doha e di Ankara stanno moltiplicando incontri e tentativi di mediazione, ma lo stallo politico rallenta anche le già difficili operazioni umanitarie sul terreno. Le macerie vengono rimosse con lentezza e migliaia di dispersi restano sotto gli edifici crollati, mentre le piogge degli ultimi giorni hanno allagato numerosi accampamenti. Senza un accordo sui nodi centrali — governance, ritiro e disarmo — la seconda fase del cessate il fuoco resta un orizzonte lontano.
L’apertura inattesa
In questo quadro a dir poco desolante, emerge un segnale inatteso dal primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu. Secondo un’inchiesta di Channel 12, Tel Aviv avrebbe fatto recapitare ad Hamas una proposta che permetterebbe l’uscita di decine di miliziani intrappolati nei tunnel a est della linea gialla.
Difficile capire cosa preveda esattamente questa proposta anche se, stando a quanto riportano diversi media, Tel Aviv starebbe offerendo la “liberazione” dei miliziani intrappolati in cambio della loro resa incondizionata, del loro trasferimento nelle carceri israeliane e del loro eventuale rilascio in cambio dell’impegno al disarmo e alla rinuncia ad ogni attività terroristica.
Finora, però, nessuno si è arreso: alcuni miliziani sono stati uccisi o catturati tentando la fuga.
Operazione IDF in Cisgiordania e reazioni dei gruppi armati
Sul fronte cisgiordano, l’esercito israeliano (Idf) ha avviato un’operazione “su larga scala” nel nord della regione, in coordinamento con lo Shin Bet e la Guardia di frontiera per “colpire alcuni terroristi”. Un blitz sontuoso che, secondo l’agenzia palestinese Wafa, ha portato all’arresto di oltre cento persone e al ferimento di venticinque civili, in gran parte nella città di Tammoun.
Davanti a questa ennesima operazione che di fatto viola il cessate il fuoco, la risposta dei gruppi armati non si è fatta attendere. Hamas e Jihad islamica, all’unisono, hanno condannato l’operazione, definendola rispettivamente “un’aggressione sistematica” e la prova della volontà israeliana di consolidare il controllo sulla Cisgiordania. Un nuovo capitolo di tensione in un contesto già fragile.