Da oggi il Partito democratico cambia fase. L’assemblea nazionale del 14 dicembre, che ha approvato la relazione di Elly Schlein con 225 voti favorevoli e 36 astensioni, archivia il tempo della contendibilità interna e apre quello della verifica esterna. La questione non è più chi guida il Pd, ma che cosa succede ora nel campo progressista. E con i 5 Stelle di Giuseppe Conte.
Il voto dell’Antonianum consegna una segretaria politicamente rafforzata, ma soprattutto vincolata. Una leadership consolidata riduce gli alibi interni e sposta l’intero peso della partita sulle scelte politiche che verranno. Solo le prossime settimane diranno se l’unità del Pd diventerà leva di coalizione o fattore di attrito.
Il Pd dopo la diarchia: meno mediazioni, più responsabilità
L’ingresso dell’area di Stefano Bonaccini nella maggioranza schleiniana produce un effetto immediato: la minoranza riformista perde capacità di interdizione negli organismi del partito. Da domani questo significa una cosa sola: Schlein potrà muoversi con maggiore coerenza politica, ma non potrà più attribuire ad altri eventuali ambiguità o rallentamenti.
Il ridimensionamento delle correnti non elimina il dissenso, ma lo trasforma in pressione sui contenuti, soprattutto su politica estera, giustizia e alleanze. I riformisti restano nel partito e sanno che i prossimi passaggi parlamentari saranno il terreno su cui misurare la linea della segreteria.
Conte e Schlein: il confronto vero comincia adesso
Giuseppe Conte ha scelto Atreju per ribadire un messaggio che peserà da domani in avanti. Nessuna alleanza automatica, prima il programma e solo dopo il candidato. È una linea che congela la leadership del campo largo e sposta il confronto su singoli dossier.
Per Schlein questo significa una sfida doppia. Da un lato dimostrare che l’unità parlamentare già esiste, come nel caso dei sedici emendamenti unitari alla manovra 2026. Dall’altro evitare che il metodo “programma prima di tutto” diventi uno strumento di veto permanente del M5S.
La scelta di Conte di parlare dal palco della destra non è un episodio isolato. Segnala che il leader M5S intende giocare una partita autonoma, mantenendo il Pd come interlocutore necessario ma non dominante. Da domani questa ambiguità non potrà più essere elusa.
I prossimi passaggi che possono avvicinare Pd e M5S
Il primo banco di prova immediato resta l’iter della legge di bilancio. La convergenza su sanità, salari e lavoro povero è destinata a proseguire. Ogni voto comune rafforzerà l’idea che un’alternativa di governo sia praticabile, almeno sul piano sociale.
Subito dopo arriverà il terreno delle riforme istituzionali, a partire dal premierato. Qui Pd e M5S condividono l’opposizione di fondo, anche se con motivazioni diverse. La battaglia parlamentare e comunicativa contro la riforma della destra può diventare un collante politico.
Un terzo fronte è quello delle amministrative del 2026, che da domani entrano nella fase di preparazione. Le grandi città saranno il laboratorio reale del campo largo: candidature condivise o competizione aperta diranno molto più di mille dichiarazioni.
Le mine che rischiano di far saltare l’asse
Il calendario, però, è carico di rischi. Il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati, previsto per la primavera 2026, è il primo. Il M5S sarà su un no radicale, il Pd ufficialmente contrario ma internamente diviso. Una campagna referendaria disallineata potrebbe esporre pubblicamente le fratture.
Ancora più delicata è la politica estera. Ogni voto su Ucraina, Nato e spese militari può produrre uno strappo. Qui la distanza tra la linea atlantista del Pd e quella del M5S resta strutturale. Da domani il problema non sarà più rinviabile.
Infine c’è il nodo della leadership della coalizione. Schlein esce dall’assemblea come leader indiscussa del Pd, ma Conte non riconosce alcuna primazia automatica. Il rischio è una lunga sospensione, in cui l’assenza di una guida condivisa indebolisce l’alternativa prima ancora di costruirla.
Da domani in poi: gli scenari aperti
E ora? Uno scenario è la convergenza progressiva, costruita su atti parlamentari comuni e su alleanze locali che anticipano l’intesa nazionale. Un altro è la competizione controllata, con Pd e M5S alleati su singoli temi ma divisi sulla prospettiva di governo. Il terzo, più instabile, è la frizione permanente, in cui ogni dossier diventa un campo di battaglia e il campo largo resta una formula incompiuta.
L’assemblea ha chiarito una cosa: Elly Schlein ha il controllo del Pd. Da domani, però, il giudizio sulla sua leadership non dipenderà più dagli equilibri interni, ma dalla capacità di governare un rapporto complesso con Giuseppe Conte e di tenere insieme un’opposizione che rischia di dividersi proprio mentre prova a diventare alternativa. La partita vera comincia adesso.