Ieri a Gaza è successo poco. È successo come ieri. Come l’altro ieri. Come domani. Le tende hanno continuato a riempirsi d’acqua, le coperte a perdere peso sotto la pioggia, i bambini a dormire con il freddo che entra dal basso. Le strade restano fango, le ambulanze rallentano, i corpi si spostano a mano. Nessun evento, nessuna svolta, nessuna notizia capace di interrompere il flusso. Gaza procede.
Nel frattempo, fuori, il mondo funziona. I voli decollano, le mappe scorrono sugli schermi, i negoziati avanzano per fasi, con parole pulite: sicurezza, governance, stabilizzazione. Si discute di linee, di confini, di responsabilità future. Sul terreno, quelle stesse linee si muovono di pochi metri alla volta, abbastanza per cambiare una strada, una casa, una via di fuga. Succede senza rumore.
Anche la verità ha trovato il suo posto. I giornalisti continuano a raccontare, quando possono. Le loro famiglie continuano a morire, quando serve. I numeri crescono, le cifre si assestano, la notizia si deposita. Diventa statistica. Non ferma nulla. Questa è la fase più avanzata dell’assedio: quando smette di apparire straordinario. Quando la violenza entra in regime ordinario, compatibile con tutto il resto. Con il calendario, con le festività, con l’agenda internazionale. Gaza diventa uno sfondo operativo, una condizione data, un luogo dove accade ciò che accade sempre.
Ieri a Gaza è successo poco. Ed è proprio questo che dovrebbe spaventare. Perché quando ogni giorno è uguale, la catastrofe ha già vinto: ha trovato il modo di esistere senza disturbare più nessuno.