A Genova polemiche infuocate sulla privatizzazione dei bus. Ma le Iri comunali sono un fiasco

di Maurizio Grosso

Una protesta che a Genova non accenna a finire. E che nel frattempo è diventata ancora più infuocata dopo l’intervento di Beppe Grillo, genovese doc. Nel mirino delle contestazioni dei lavoratori, e del leader del M5S, c’è l’ipotesi di provatizzare l’Amt, la società comunale che gestisce il trasporto pubblico locale. Del resto sono tanti i comuni che, pressati dal patto di stabilità, sono portati a vendere le loro numerose partecipazioni. Un pressing che sottopone tali operazioni a un rischio di svendita, viste le attuali condizioni di mercato. Ma che da un’altra parte può contribuire a sottrarre al controllo degli enti locali migliaia di società disastrate, spesso e volentieri fonte di soli sprechi. Del resto lo stesso sindaco di Genova, Marco Doria, nel tentativo di gettare acqua sul fuoco ieri ha detto che l’azienda “deve avere i conti in equilibrio, non può fallire, abbiamo il dovere di salvarla”. Ma l’universo delle piccole Iri comunali è un vero girone dantesco.

Le cifre
I numeri, ancora oggi presenti nei comuni del Belpaese, sono da far tremare i polsi. In base a un recente censimento condotto proprio dall’Anci, ora presieduta dal sindaco di Torino Piero Fassino, in Italia ci sono ancora 3.662 “municipalizzate”, società direttamente o indirettamente controllate dai comuni. Quel che più conta è che questo movimento porta in dote qualcosa come 30.185 poltrone, tra cui 15.868 per gli amministratori. Questo significa una media di 4,3 amministratori per ogni società. Si aggiungono poi 11.617 posti per i componenti di collegi sindacali e organi di controllo e 2.700 per direttori e procuratori. Insomma, un mondo talmente grande da far gola a tutte quelle mire politiche che periodicamente consegnano alle cronache scandali come assunzioni facili di trombati e parentopoli varie. Una situazione che, a distanza di tanti anni dalle prime battaglie anticasta, risulta ancora oggi del tutto inaccettabile. E la dice lunga sulla bontà degli annunci, succedutisi nel tempo, su manovre di contenimento di questo scandalo.

La distribuzione
Tornando alle 3.662 società partecipate dai comuni, la maggior parte trova sistemazione nei municipi di Lombardia (597), Toscana (330) e Piemonte (320). Sempre all’interno del numero complessivo, spiccano per tipologia le srl (1.557), seguite dalle spa (1.370) e dalle società consortili (438). Ma nel calderone ci sono pure 107 consorzi, per non farsi mancare niente. Inutile far notare che la maggior parte dei queste strutture, ovvero 1.470, è occupata nell’erogare servizi pubblici locali. Ma ci sono anche attività come supporto alle imprese, cultura, formazione, istruzione, ricerca. E chi più ne ha più ne metta, all’insegna dello spreco sfrenato.
Se poi si considerano anche tutte le altre società degli enti locali come regioni, province, comunità montane e via dicendo, sulla base degli ultimi calcoli si arriva alla cifra monstre di 7.800 aziende pubbliche che costano circa 15 miliardi di euro l’anno. Un vergognoso sporposito. Per questo, alla fin fine, il pressing esercitato dal patto di stabilità e la necessità per gli enti locali di mettere sul mercato consistenti quote delle loro partecipate potrebbe anche rivelarsi positivo.