Gaetano Mirabella Costa e Fernando Eduardo Artese sono due cittadini italiani detenuti nel centro Ice noto come “Alligator Alcatraz”, in Florida. Un nome da fiction, un carcere reale. Ci sono finiti per reati minori o per questioni amministrative: Mirabella, residente da anni negli Usa, è stato arrestato per possesso di farmaci senza prescrizione; Artese, iscritto all’Aire, è stato fermato dopo aver saltato un’udienza su una multa. Nessuno dei due ha precedenti gravi. Nessuno dei due ha avuto accesso regolare a un avvocato. Entrambi sono finiti in gabbia.
Il carcere è stato costruito in otto giorni. Un ex aeroporto militare convertito in lager tropicale: tende, container, 8.500 metri di filo spinato, 200 telecamere, 400 agenti. La struttura è diventata simbolo della politica trumpiana sull’immigrazione, coccolata dal governatore DeSantis. Trump, in visita, ha scherzato: “Meglio insegnare ai migranti a correre a zigzag per sfuggire agli alligatori”. E il procuratore della Florida ha dichiarato che “non c’è molto ad attenderli là fuori, se non pitoni e rettili velenosi”.
Trattati come cani, ignorati come numeri
La testimonianza di Mirabella è precisa: “Trentadue in una gabbia, tre bagni all’aperto. Siamo trattati come cani. Catene ai polsi e alle caviglie per andare in udienza, nessun contatto con un giudice, nessuna informazione sul rimpatrio”. I racconti si allineano perfettamente con le denunce di Amnesty International e di altre organizzazioni: sovraffollamento, cibo scadente, Bibbie sequestrate, acqua razionata, detenzione prolungata usata come forma di pressione psicologica.
Il governo della Florida respinge tutto come “fake news”. Ma i documenti parlano chiaro: detenuti costretti a dormire su pavimenti in cemento, manette anche durante i pasti, negazione di farmaci essenziali, luci artificiali accese 24 ore al giorno. Un sistema disegnato per far crollare le persone. E farle autodeportare.
Dalla passerella per Forti al silenzio per gli altri
A Roma, nel frattempo, si monitora. La Farnesina ha confermato “attenzione massima”, “contatto costante con le famiglie”, “interlocuzione in corso con Ice”. Ma senza mai condannare pubblicamente la detenzione, né le condizioni. Nessuna Meloni si è espressa, nessun ministro ha preteso pubblicamente risposte. Nessuna missione ufficiale. Nessun tweet.
Eppure non è sempre così. Quando si è trattato di riportare in Italia Chico Forti – condannato per omicidio, ma diventato icona mediatica – il governo ha sfoderato tutto l’arsenale della propaganda: volo di Stato, dichiarazioni trionfanti, premier sulla pista d’atterraggio. “Promessa mantenuta”, “fiera del governo”.
Prima gli italiani, ma non tutti
Il caso di Mirabella e Artese rompe la vetrina dello slogan “Prima gli italiani”. Perché il governo, stavolta, tace. Perché i due detenuti non sono funzionali al racconto. Perché sono migranti. Perché criticare il trattamento loro riservato dagli Usa di Trump vuol dire attaccare la politica di un alleato ideologico.
E l’opposizione attacca. Angelo Bonelli ha accusato: “Patrioti a parole, vassalli nei fatti”. Il Partito democratico ha accusato l’esecutivo di usare il nazionalismo come facciata. L’allusione è chiara: la protezione vale solo per chi può essere speso in campagna elettorale, per la serie, il patriottismo come marketing.
Due cittadini italiani sono detenuti in una struttura denunciata dalle Ong come illegale. E il governo che aveva promesso di difendere ogni italiano tace.
E allora resta una domanda, che pesa più delle catene che stringono Mirabella: per chi vale lo slogan “Prima gli italiani”? Chi decide se sei uno da proteggere o uno da nascondere? Chi è italiano abbastanza per meritarsi una passerella? Chi resta chiuso nella gabbia mentre a Roma si recita il patriottismo?
Finché non ci sarà una risposta, la gabbia non sarà solo in Florida. Sarà anche qui.