di Clemente Pistilli
Prestazioni pagate a peso d’oro, senza badare a tetti di spesa e possibilità di risparmio, a tutto vantaggio delle strutture sanitarie private, e lo Stato, che dovrebbe essere il primo interessato a recuperare denaro, che anziché collaborare con i magistrati prende tempo, rispondendo alla fine che non ha un quadro dei centri che dallo stesso Stato dipendono e non può così fare i controlli richiesti. Una storia di sperperi, paralizzante burocrazia e incuranza del denaro dei cittadini quella che emerge dalle carte di un processo appena concluso davanti alla Corte dei Conti della Calabria. Il risultato? Dopo aver chiesto un risarcimento danni di quasi 19 milioni di euro a un manager, i giudici non hanno potuto far altro che condannare il colletto bianco a pagare poco meno di un milione di euro all’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza. In pratica nelle casse pubbliche rientreranno, forse, solo gli spiccioli.
Il manager voluto da Loiero
La vicenda vede come protagonista Lucio Franco Petramala, ex direttore generale dell’Asp cosentina, messo al timone dell’azienda dall’allora presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, e indagato sul fronte penale sempre per rimborsi alle cliniche private e incarichi onerosi agli avvocati, fatto oggetto tra l’altro di interrogazioni parlamentari, essendo stato candidato alle regionali prima di ricevere l’incarico nella sanità. Il 28 luglio 2008 la giunta regionale aveva emesso una delibera, con cui approvava l’accordo sottoscritto tra assessorato regionale alla salute e l’Azienda italiana ospedalità privata calabrese, fissando i tetti di spesa sui ricoveri, per un totale di oltre 710 milioni di euro. Il vincolo, in base agli accertamenti compiuti dagli inquirenti contabili, non sarebbe stato tenuto in nessun conto da Petramala, che avrebbe dato l’ok a contratti con i privati per cifre di gran lunga superiori al tetto di spesa, firmando addirittura precontratti con strutture di Cosenza e Paola prima del via libera regionale.
Danno milionario
Per l’accusa il direttore generale avrebbe portato così l’azienda a spendere diciotto milioni in più del previsto, otto milioni persino per prestazioni non erogate. Petramala era stato così chiamato a risarcire quasi 19 milioni di euro. La condotta del manager è stata definita dagli inquirenti “illegittima, irragionevole e inopportuna”, caratterizzata da “superficialità e noncuranza degli interessi pubblici di contenimento delle spese, di rispetto della programmazione finanziaria”. E ancora: “A fronte di una contrattualizzazione privata complessiva di 76.081.766 euro, sono state erogate prestazioni per 69.408.422 euro”. Nel corso del processo, però, le cose si sono complicate e non solo perché, anche se extra budget e illegittime, le prestazioni svolte sono state comunque un servizio reso ai cittadini e i giudici hanno così ritenuto opportuno fare al manager uno “sconto”.
Il ministero non collabora
Il problema principale è stato quello che, per fare piena luce tra quanto sostenuto dall’accusa e quanto dichiarato dalla difesa, i giudici hanno fatto appello al Ministero della salute, l’unico che poteva fare il punto sui rapporti tra l’azienda e le diverse strutture sanitarie private, trovandosi però davanti a un muro di gomma. Dopo varie proroghe, dal dicastero allora retto da Renato Balduzzi, la Corte dei Conti si è sentita rispondere che non era possibile fornire i dati richiesti, essendo impossibile “individuare con esattezza le strutture che erogano prestazioni ospedaliere per acuti”. Il Ministero che non conosce quanto da lui dipende. “Il collegio non può non biasimare – hanno scritto i giudici nella sentenza – Il fatto che il Ministero della salute non sia stato in grado di espletare l’istruttoria”. Vista la situazione, però, i magistrati non hanno potuto far altro che tentare una ricostruzione del danno sulla base di indizi e alla fine condannate Petramala a risarcire poco meno di un milione di euro.
Da Nord a Sud trionfano clientele e corruzione
La sentenza emessa dalla Corte dei Conti della Calabria sembra non fare altro che confermare quanto emerso dall’inchiesta pubblicata il 25 ottobre scorso da La Notizia: in Italia gli sperperi nella sanità sono enormi e, mentre i cittadini fanno sempre più fatica a ottenere servizi adeguati, vi sono differenze anche dell’800% sul prezzo pagato per un prodotto da un’Asl rispetto a quello pagato per lo stesso prodotto da un’altra Azienda sanitaria. Un sistema perverso, che si alimenta di rapporti corruttivi nel peggiore dei casi e di ingiustificabile superficialità in altri, dove ormai sta cercando di fare affari anche la criminalità organizzata. Una recente ricerca compiuta da Transparency International Italia, Rissc (Centro ricerche e studi su sicurezza e criminalità) e Ispe (Istituto per la promozione dell’etica in sanità) non sembra lasciare spazio a molti dubbi: “In alcune realtà l’Asl diventa un serbatoio di lavoro, da raggiungere non sempre attraverso la meritocrazia, e di conseguenza un serbatoio di voti”.
Nello studio viene poi evidenziato che la criminalità organizzata “soprattutto in alcune aree del Paese, vende servizi a bassa tecnologia alle Asl”. Business all’insegna della “scarsa trasparenza nell’uso delle risorse” e dello spreco, “che risponde principalmente a dinamiche clientelari e di inefficienza sistemica”. Accade così, come appurato un anno fa nel corso di un monitoraggio dall’Autorità di vigilanza sugli appalti pubblici, che un’azienda sanitaria paga un inserto tibiale 199 euro e un’altra azienda per lo spesso prodotto spende 2.479 euro, con una differenza del 1.145%, oppure che una protesi d’anca in ceramica viene pagata da un’Asl 284 euro e da un’altra 2.575, l’806% in più. Da tempo si discute di applicare prezzi standard, ma “il sistema” ostacola tale soluzione. “Correggere questo stato di cose è una vera impresa, ci sono resistenze enormi, difficili da immaginare”, ha dichiarato a La Notizia Giuseppe Vialetti, ex presidente dell’Alto commissariato sul federalismo fiscale. Di spreco in spreco per la sanità vengono così spesi miliardi di euro e i cittadini finiscono protagonisti di un’odissea tra un ospedale e un altro per un letto o sono costretti ad attendere mesi per un’analisi.