Autonomie, prima diamo quel che è giusto al Sud. La spesa pubblica è sbilanciata per 40 miliardi al Nord. Serve più equità

Il quadro sulle autonomie. Il federalismo fiscale premia le aree più ricche del Paese e penalizza enormemente quelle più povere

Ho sempre affermato che il risultato delle elezioni nazionali del 4 marzo dello scorso anno nel Mezzogiorno è la risposta dei cittadini a una costante disattenzione del Paese verso le esigenze del proprio territorio. Negli ultimi 20 anni i criteri usati per determinare l’allocazione delle risorse pubbliche hanno sistematicamente penalizzato il Meridione. Nel più recente Rapporto dei Conti Pubblici Territoriali, infatti, si può osservare che il totale della spesa pubblica per residente è stato di 15.000 euro al Centronord e di appena 12.000 euro al Sud. Però, secondo i padri costituenti, tutti i cittadini, seppure residenti in diverse parti del Paese, dovrebbero avere garantita parità economica e sociale. Con i dovuti calcoli, quindi, il rispetto della Costituzione comporterebbe una ulteriore redistribuzione del valore di circa 40 miliardi l’anno dal Centronord al Sud.

E che dire dell’attuazione della legge n. 42 del 2009 in tema di federalismo fiscale per i Comuni, che riguarda una spesa annuale di oltre 32 miliardi? Nell’indecifrabile silenzio della classe dirigente meridionale, accompagnato da un flebile dibattito negli organi di informazione, abbiamo assistito al progressivo evolvere dell’idea che i diritti di cittadinanza nel Paese siano legati al censo, con buona pace dei principi di solidarietà, equità e perequazione. Ciò ha prodotto un sistema di finanza comunale basato sulla spesa storica che garantisce autonomia fiscale e maggiori risorse ai territori più ricchi e calpesta ogni obbligo di legge al riequilibrio verso le aree più deboli che, inevitabilmente, sono destinate a impoverirsi di più.

Questa visione distorta di federalismo produce effetti inaccettabili: si riconoscono fabbisogni di beni e servizi pubblici diversi a Comuni di uguali dimensioni che, però, si trovano in aree del Paese diverse dal punto di vista reddituale. Quindi, per esempio, un Comune situato in una delle aree economicamente più sviluppate del Paese, possibilmente ricco di asili nido, esprimerà fabbisogni crescenti di asili e vedrà riconoscersi le relative risorse per garantire il mantenimento del servizio pubblico, se non per la realizzazione dell’ennesimo asilo nido. Al contrario, un Comune situato in un’area economicamente depressa e privo di asili nido, non esprimerà, conseguentemente, alcun fabbisogno di asili nido escludendo così le famiglie dal godimento di un servizio essenziale così importante. Volete una prova? Prendiamo due centri di dimensione pressoché uguale, Altamura in Puglia (70.830 abitanti) e Imola in Emilia Romagna (69.810 abitanti).

Secondo dati Opencivitas, per Altamura, Comune più povero e sprovvisto di asili nido, è stato calcolato un fabbisogno di asili pari a zero. Diversamente per Imola, centro più ricco e dove gli asili nido sono presenti, il relativo fabbisogno è pari a 4,5 milioni di euro. È evidente la disparità generata dall’attuazione di questo tipo di federalismo che discrimina ignobilmente i bambini sulla base della ricchezza del territorio in cui sono nati. Se estendiamo il ragionamento a tutti gli altri servizi pubblici locali, la differenza in termini di fabbisogno tra i due Comuni ammonta a 14 milioni di euro all’anno.

I risultati che emergono dal confronto tra questi due centri riproduce ciò che è accaduto dal 2011 ad oggi su scala nazionale per effetto dell’attuazione della legge sul federalismo comunale nelle regioni a statuto ordinario. Battersi per chiedere di correggere la rotta intrapresa con il sistema di finanziamento dei Comuni e contrastare chi immagina di estendere lo stesso meccanismo per attuare il disegno di autonomia differenziata previsto per alcune Regioni, significa non solo avere compreso il voto ribelle del 4 marzo al Sud, ma essere in grado di rappresentare quei cittadini che desiderano avere riconosciuta la propria dignità.

(L’autore è Deputato Pd. Professore di Economia Pubblica all’Università di Messina)