Beni confiscati ai clan. La gestione resta scandalosa

Aumentano i beni confiscati alla criminalità organizzata ma lo Stato non riesce a riutilizzarli. A ribadirlo è la Corte dei Conti.

Beni confiscati ai clan. La gestione resta scandalosa

Aumentano i beni confiscati alla criminalità organizzata ma lo Stato non riesce a riutilizzarli. Lo ribadisce la Corte dei Conti in una delibera della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, in cui la magistratura contabile ha esaminato le funzioni svolte dall’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

Aumentano i beni confiscati alla criminalità organizzata ma lo Stato non riesce a riutilizzarli. A ribadirlo è la Corte dei Conti

Era il 17 marzo 1996 quando veniva pubblicata nella Gazzetta ufficiale la legge 109 con l’intento di rendere finalmente protagonista la società civile nella lotta alle mafie attraverso la possibilità di riappropriarsi di spazi e crearne di nuovi. Le ricchezze accumulate illecitamente dai mafiosi, ad esempio coi soldi del traffico di droga o delle estorsioni, espropriate per diventare proprietà dello Stato e luoghi di cittadinanza attiva dovrebbero essere il simbolo della credibilità e della forza dello Stato contro le mafie.

Per questo occuparsi della gestione e della destinazione di questi beni, tra cui immobili e aziende, è l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alle mafie e alla criminalità organizzata (Anbsc). Già a novembre dell’anno scorso il secondo report nazionale sullo stato della trasparenza dei beni confiscati nelle amministrazioni locali, di Libera promosso in collaborazione con il Gruppo Abele e il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino evidenziava un problema di trasparenza: su 1073 comuni monitorati destinatari di beni immobili confiscati 681 non pubblicano l’elenco sul loro sito internet.

Zero trasparenza in oltre sei città su dieci

Ciò significa che ben sei comuni su dieci sono inadempienti pari al 63,5 % (erano 62% nel primo report). Il primato negativo in termini assoluti spetta ai comuni del Sud Italia compreso le isole con ben 400 comuni che non pubblicano elenco, segue il Nord Italia con 215 comuni e il Centro con 66 comuni che non pubblicano dati. Non va meglio per gli Enti sovra territoriali: su 10 province e città metropolitane destinatarie di beni confiscati, il 50% non pubblica gli elenchi. Delle 6 regioni, solo 2 (Calabria e Piemonte) adempiono all’obbligo di pubblicazione (il 33,3%).

“Garantire che la filiera del dato sui beni confiscati sia trasparente – spiegava Tatiana Giannone, referente nazionale Beni Confiscati di Libera – vuol dire dare spazio al protagonismo della comunità e della società civile organizzata, che solo conoscendo può progettare e programmare nuovi spazi comuni. Alla conoscenza del patrimonio e del territorio, del resto, è strettamente legata la capacità di utilizzare i fondi pubblici (siano essi di natura europea o di provenienza nazionale) per la valorizzazione dei beni confiscati, nella fase di ristrutturazione e in quella di gestione dell’esperienza di riutilizzi”.

Nel suo documento ora la Corte dei conti ha rilevato che, malgrado le cospicue risorse umane e finanziarie impiegate, il volume delle informazioni raccolte sui beni sequestrati o confiscati non è ancora confluito in un sistema di dati affidabile, completo e pienamente consultabile. Secondo i giudici contabili, inoltre, gli ostacoli maggiori nel destinare a nuovo uso i beni sequestrati alle mafie sono legati, oltreché alla lunghezza dei procedimenti, alla ridotta disponibilità finanziaria dei Comuni e degli enti del terzo settore, che rende difficoltoso l’avvio dei progetti di reimpiego sociale delle strutture sottratte alle organizzazioni criminali, soprattutto nel caso di immobili in cattivo stato manutentivo o soggetti a spese di gestione.

Anche in presenza di adeguate risorse, ha aggiunto la Corte, la scarsa conoscenza della loro esistenza e delle modalità di acquisizione costituiscono significativi elementi di intralcio al riutilizzo sociale dei beni nell’ambito delle politiche di contrasto alle mafie.

Le ulteriori difficoltà nell’elaborare stime affidabili ed attuali sul valore di mercato dei beni e la lunghezza dei tempi necessari alla verifica dei crediti dei terzi in buona fede delineano – ha concluso la magistratura contabile – un panorama complessivo che richiede una rinnovata capacità di concentramento delle energie umane e finanziarie – pur adeguatamente presenti nel sistema – per restituire slancio e credibilità all’azione istituzionale. Mancare l’applicazione di una legge dello Stato a cui è affidato un valore è dannoso due volte.

Al dovere legale di rimettere a disposizione della comunità beni accumulati illegalmente si aggiunge anche il dove morale di liberare queste ricchezze dall’ombra delle criminalità organizzata. Comunicare di averle strappate alle mafie dovrebbe essere un onore, più che un onere, comunicato con la soddisfazione dei giusti. Occuparsi del loro riuso è la vendetta bianca dello Stato. Eppure quella medaglia per qualcuno sembra ancora scomoda.

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